— Severian, prima d'ora mi hai già permesso un volta di tenerlo in mano. Potrei vederlo di nuovo?
Estrassi l'Artiglio dalla sua morbida custodia e lo tenni sollevato. Il suo fuoco azzurro sembrava assopito, ma potevo vedere l'arpione dall'aria crudele al centro della gemma che gli aveva procurato il nome. Dorcas stese la mano, ma io, rammentandomi del bicchiere, scossi il capo.
— Pensi che gli arrecherei danno, vero? Non lo farei: sarebbe sacrilegio.
— Se tu credi in quello che hai detto, ed io penso che tu ci creda, allora devi odiare l'Artiglio per averti riportata in vita...
— Dalla morte. — Dorcas stava nuovamente fissando il soffitto, ma ora sorrideva come se condividesse con esso un qualche profondo e comico segreto. — Avanti, dillo. Non ti farà male.
— Dal sonno — replicai. — Se una persona può essere richiamata da essa, allora non si tratta di morte... non della morte come noi l'abbiamo sempre considerata, la morte che vediamo nelle nostre menti quando ne pronunciamo il nome. Anche se ti devo confessare che mi riesce quasi impossibile credere che il Conciliatore, morto ormai da così tante migliaia di anni, possa agire attraverso questa pietra per risuscitare altre persone.
Dorcas non replicò, e non ero neppure certo che mi stesse ascoltando.
— Hai nominato Hildegrin — dissi, — quando ci ha traghettati con la sua barca dall'altra parte del lago perché potessimo cogliere il fiore avern. Ti rammenti quello che ha detto della morte? Che era una buona amica per gli uccelli? Forse allora avremmo dovuto comprendere che una simile morte non poteva essere la morte come noi l'immaginiamo.
— Se dico che credo a tutto questo, mi lascerai tenere l'Artiglio?
Scossi nuovamente il capo.
Dorcas non mi stava guardando, ma dovette scorgere il movimento della mia ombra, o forse il suo immaginario Severian sul soffitto scosse a sua volta il capo.
— Ed hai ragione... intendevo distruggerlo, se solo avessi potuto. Vuoi che ti dica cosa credo veramente? Io credo che ero morta... non addormentata, ma morta; che tutta la mia vita abbia avuto luogo molto, molto tempo fa, quando vivevo con mio marito sopra un piccolo negozio e mi prendevo cura del nostro bambino; che questo vostro Conciliatore che è venuto così tanto tempo fa, non fosse altro che un avventuriero appartenente ad una delle antiche razze che erano sopravvissute alla morte universale. — Le sue mani serravano la coperta. — Io ti chiedo, Severian, quando tornerà, non è lui che dovrà essere chiamato con l'appellativo di Nuovo Sole? E questo non ti fa pensare all'Artiglio? Io credo che, quando è giunto qui, lui abbia portato con sé un oggetto che aveva sul tempo lo stesso potere che si dice gli specchi di Padre Inire abbiano sulla distanza, e che tale oggetto sia la tua gemma.
Dorcas si arrestò per voltarsi a guardarmi con aria di sfida, e poiché non dissi nulla, proseguì:
— Severian, quando tu hai riportato in vita l'ulano, è stato perché l'Artiglio ha modificato per lui il tempo tornando ad un momento in cui egli era ancora in vita. Quando hai parzialmente guarito le ferite del tuo amico è stato perché la pietra ha fatto procedere il tempo fino ad un momento in cui esse erano quasi sanate. E quando sei caduto nella palude, nel Giardino del Sonno Eterno, mi devi aver toccata, o quasi toccata, e, per me, il tempo è tornato ad essere quello in cui ero ancora viva, e quindi sono tornata in vita. Ma ero morta, e morta da lungo tempo, un cadavere rattrappito preservato da quelle acque marroni. Ed in me c'è qualcosa che è ancora morto.
— In ognuno di noi c'è qualcosa che è sempre stato morto — risposi. — Se non altro perché sappiamo che alla fine dovremo morire. Tutti noi, salvo i bambini più piccoli.
— Io devo tornare indietro, Severian, ora lo so, ed è questo quello che stavo cercando di dirti. Devo tornare indietro e scoprire chi ero e dove ho vissuto e cosa mi è accaduto. So che tu non puoi venire con me... — Io annuii. — ... e non intendo chiederti di farlo. Non voglio neppure che tu lo faccia. Io ti amo, ma tu sei un'altra forma di morte, una morte che mi è rimasta accanto e mi è stata amica come lo era stata la vecchia morte nel lago, ma sei pur sempre la morte. Io non voglio portare con me la morte mentre vado a cercare la mia vita.
— Ti capisco — dissi.
— Può darsi che mio figlio sia ancora vivo... magari vecchio, ma ancora vivo. Devo sapere.
— Ti capisco — ripetei, ma non potei fare a meno di aggiungere: — C'è stato un tempo in cui mi dicevi che non ero la morte, e che non dovevo permettere agli altri di persuadermi a pensare a me stesso in questi termini. È stato dietro il frutteto, nei giardini della Casa Assoluta. Ti ricordi?
— Tu sei stato la morte per me — replicò, — o, se preferisci, sono caduta nella trappola da cui ti avevo messo in guardia. Forse, tu non sei la morte, ma rimarrai quello che sei, un torturatore ed un carnefice, ed il sangue scorrerà nelle tue mani. Poiché ricordi tanto bene quel momento nella Casa Assoluta, forse tu... non posso dirlo. Il Conciliatore, o l'Artiglio, o forse l'Increato mi hanno fatto questo. Non tu.
— Cosa c'è? — chiesi.
— Il Dr. Talos aveva dato ad entrambi un po' di denaro, nella radura, proveniente da quanto gli era stato pagato da un ufficiale di corte per la nostra commedia. Mentre eravamo in viaggio, ho affidato tutto a te. Ora, potrei riaverlo? Ne ho bisogno. Se non tutto, almeno una parte.
Svuotai sul tavolo il denaro che avevo nella mia giberna, e che ammontava ad una somma equivalente a quella che avevo ricevuto da lei, o anche maggiore.
— Grazie. Non ne avrai bisogno?
— Non tanto quanto te. E poi, è tuo.
— Partirò domani, se sarò forte abbastanza, e se no dopodomani, che mi senta in forze o meno. Non credo tu sappia con quale frequenza partano le navi dirette a valle.
— Quando vuoi. Basta spingerle in acqua, ed il fiume fa il resto.
— Questo non è da te, Severian, o almeno non lo è molto. È più il tipo di frase che avrebbe detto il tuo amico Jonas, stando a quel che mi hai raccontato. Il che mi ricorda che tu non sei il primo visitatore che è venuto a trovarmi oggi. È venuto anche il nostro amico... o almeno tuo... Hethor. Questo non ti diverte, vero? Scusa, volevo solo cambiare argomento.
— Lui ci gode. Ci gode a guardarmi lavorare.
— Migliaia di persone ci godono quando lavori in pubblico, e tu stesso godi nel farlo.
— Vengono per sentirsi inorriditi, in modo da potersi poi congratulare con se stessi per essere ancora vivi. Ed anche perché amano l'eccitazione e l'incertezza di non sapere se il condannato crollerà all'ultimo momento o se si verificherà qualche macabro incidente. Quanto a me, godo nell'esercitare la mia arte, l'unica vera capacità che io abbia... godo nel riuscire a far sì che tutto vada alla perfezione. Hethor vuole qualcos'altro.
— La sofferenza?
— Sì, la sofferenza, ma anche qualcos'altro.
— Lui ti adora, sai. Ha parlato con me per qualche tempo, oggi, e credo che sarebbe pronto a camminare nel fuoco se tu glielo ordinassi. — A quelle parole dovetti sussultare, perché Dorcas aggiunse: — Tutto questo parlare di Hethor ti infastidisce, vero? Una persona malata è più che sufficiente. Parliamo di altro.
— Non è malato come te, ma non riesco a pensare ad Hethor senza rivederlo come l'ho visto una volta dall'alto del patibolo, con la bocca aperta e gli occhi...
— Sì, quegli occhi... li ho visti stanotte. — Dorcas si agitò, a disagio. — Occhi morti, anche se credo che non dovrei essere io a dire una cosa simile. Gli occhi di un cadavere. Hai la sensazione che, se li toccassi, scopriresti che sono aridi come pietre e che non si muovono mai.
— Questo non è tutto. Quando ero sul patibolo, a Saltus, ed ho guardato giù e l'ho visto, i suoi occhi danzavano. Tu hai detto però che i suoi occhi ti ricordano quelli di un cadavere. Ti sei mai guardata in uno specchio? I tuoi occhi non sono quelli di una morta.
— Forse no. — Dorcas fece una pausa. — Una volta solevi dire che erano molto belli.
— E non sei felice di essere viva? Anche se tuo marito è morto, e tuo figlio è morto e la tua casa è in rovina... anche se tutte queste cose fossero vere... non sei piena di gioia perché sei nuovamente qui? Non sei uno spettro, e neppure una resuscitata come quelli che abbiamo visto nella città di pietra. Guarda in uno specchio, come ti ho detto, oppure, se non vuoi, guarda nel mio volto o in quello di qualsiasi uomo e vedrai ciò che sei.
Dorcas si sollevò a sedere ancor più lentamente e faticosamente di quanto avesse fatto la prima volta quando si era sollevata per bere il vino, ma questa volta sporse le gambe oltre il bordo del letto, e vidi che era nuda sotto la sottile coperta. Prima della sua malattia, la pelle di Jolenta era perfetta, liscia e morbida, mentre quella di Dorcas era punteggiata di lentiggini dorate ed ella era tanto magra che riuscivo sempre ad intravedere le sue ossa. Eppure, Dorcas era molto più desiderabile nelle sue imperfezioni di quanto lo fosse stata Jolenta con la sua carne florida. Pur essendo consapevole di quanto sarebbe stato colpevole da parte mia impormi a lei o anche persuaderla a cedermi, ora che era malata e che stavo per lasciarla, avvertii ugualmente il desiderio che sorgeva in me. Per quanto grande... o piccolo... sia il mio amore per una donna, scopro sempre di desiderarla maggiormente, quando non la posso più avere
Ma ciò che provavo per Dorcas era qualcosa di più forte ed anche di più complesso. Lei era stata, anche se solo per un tempo tanto breve, l'unica intima amica che avessi avuto, ed il nostro rapporto amoroso, sia il frenetico desiderio che ci aveva animati nel piccolo magazzino in cui ci era stato concesso di trascorrere la notte a Nessus, sia il pigro e prolungato giocare nella nostra camera nel Vincula, aveva sempre costituito una manifestazione caratteristica della nostra amicizia, oltre che del nostro amore.
— Stai piangendo — osservai. — Vuoi che me ne vada?
Dorcas scosse il capo, e poi, come se non potesse controllare oltre quelle parole che volevano uscire a tutti i costi, sussurrò:
— Oh, non vuoi venire anche tu, Severian? Non parlavo sul serio. Non vorresti venire? Venire con me?
— Non posso.
Dorcas si afflosciò sullo stretto letto, e mi parve più piccola e più bambina.
— Lo so. Tu hai il tuo dovere verso la corporazione: non puoi tradirla di nuovo e guardarti ancora in faccia, ed io non te lo chiederò. È solo che non avevo mai smesso del tutto di sperare che lo avresti fatto.
— Devo fuggire dalla città — replicai, scuotendo ancora il capo.
— Severian!
— E devo andare a nord. Tu andrai a sud, e, se io venissi con te, ci manderebbero dietro imbarcazioni piene di soldati.
— Severian, cosa è successo? — Il suo volto era molto calmo, ma gli occhi erano dilatati.
— Ho liberato una donna. Avrei dovuto strangolarla e gettare il suo corpo nell'Acis, ed avrei potuto... in realtà non provavo nulla per lei, e mi sarebbe stato facile farlo. Ma, quando sono rimasto solo con lei, ho pensato a Thecla. Eravamo in un piccolo bersò riparato da arbusti e situato proprio sull'orlo dell'acqua, e le avevo già messo le mani intorno al collo quando ho pensato a Thecla ed a come avevo desiderato di liberarla. Non ero mai riuscito a trovare il modo per farlo, te l'ho detto?
Dorcas scosse il capo quasi impercettibilmente.
— C'erano confratelli ovunque, e per la via più breve avremmo dovuto superarne almeno cinque, che conoscevano sia me che lei. — (Thecla stava ora gridando in un qualche angolo della mia mente). — In realtà, tutto quello che avrei dovuto fare sarebbe stato di dire loro che Maestro Gurloes mi aveva ordinato di portargli la prigioniera. Ma in quel caso sarei dovuto fuggire con lei, ed io stavo ancora cercando di escogitare un modo che mi avrebbe permesso di rimanere all'interno della corporazione.
Non l'amavo abbastanza.
— Adesso è passato — mi consolò Dorcas. — E, Severian, la morte non è quella cosa terribile che tu credi essa sia. — Adesso i nostri ruoli si erano invertiti, come se fossimo stati due bambini sperduti che cercassero di confortarsi a vicenda.
Scrollai le spalle. Lo spettro che avevo mangiato al banchetto di Vodalus era quasi calmo: potevo sentire le sue lunghe dita fredde sul mio cervello, e, sebbene non potessi voltarmi all'interno del mio cranio per vederla, sapevo che i suoi profondi occhi violetti erano dietro i miei. Fui costretto a fare uno sforzo per non parlare con la sua voce.
— Comunque, ero con quella donna, nel bersò, ed eravamo soli. Il suo nome era Cyriaca. Ero certo, o almeno sospettavo, che lei fosse al corrente di dove si trovavano le Pellegrine... perché una volta era stata una di loro. Ci sono mezzi di tortura silenziosi che non richiedono l'uso di alcun apparecchio, e che, pur non essendo spettacolari, risultano senz'altro efficaci. Basta manipolare direttamente i nervi del cliente. Stavo per usare quello che noi chiamiamo il Bastone di Humbaba, ma, prima che la toccassi, lei mi ha rivelato quello che volevo sapere. Le Pellegrine si stanno prendendo cura dei feriti vicino al Passo di Orinthya. Quella donna dice di aver ricevuto appena una settimana fa una lettera da una sua conoscente dell'Ordine...
XII
SEGUENDO IL FLUSSO
Il bersò aveva un tetto solido, ma i lati erano formati da semplici tralicci, sostenuti più dalle felci piantate a ridosso della loro superficie che dai sottili cannicci. I raggi della luna trapelavano fra di essi e penetravano in misura maggiore dalla porta, riflessi com'erano dalla sottostante acqua corrente. Potevo vedere il terrore sul volto di Cyriaca, e la consapevolezza che la sua unica, tenue speranza stava nell'eventualità che io provassi ancora un po' di amore per lei; ma io sapevo che in effetti ella era priva di speranze, perché non provavo più nulla nei suoi confronti.
— All'accampamento dell'Autarca — ripeté Cyriaca. — Questo è quanto mi ha scritto Einhildis. Sono ad Orinthya, vicino alle sorgenti del Gyoll. Ma se andrai laggiù per restituire il libro, dovrai stare attento... Einhildis mi ha scritto anche che i cacogeni sono atterrati da qualche parte nel nord.
La fissai a lungo, cercando di scoprire se stesse mentendo.
— Questo è quanto mi ha scritto Einhildis. Suppongo abbiano voluto evitare gli specchi della Casa Assoluta, in modo da poter sfuggire agli occhi dell'Autarca. Lui dovrebbe essere il loro servitore, ma talvolta agisce come se toccasse a loro servire lui.
— Mi stai prendendo in giro? — La scrollai. — L'Autarca servire loro?
— Per favore! Oh, per favore...
La lasciai andare.
— Tutti... Erebus! Perdonami! — Singhiozzava, e, anche se era nell'ombra, mi accorsi che si stava pulendo gli occhi ed il naso con un bordo dell'abito scarlatto. — Lo sanno tutti, eccetto i villani, i brav'uomini e le brave donne. Tutti gli armigeri, la maggior parte degli ottimati, e, ovviamente, gli esultanti, lo hanno sempre saputo. Io non ho mai visto l'Autarca, ma mi è stato detto che lui, il Viceré del Nuovo Sole, è poco più alto di me. Tu credi che i nostri orgogliosi esultanti permetterebbero ad una persona del genere di governarli se questi non avesse mille cannoni alle sue spalle?
— Io l'ho visto — commentai, — e mi ero posto questa domanda. — Cercai fra i ricordi di Thecla qualcosa che mi confermasse le parole di Cyriaca, ma vi trovai solo voci.
— Mi parleresti di lui? Per favore, Severian, prima di...
— No, non ora. Ma, perché i cacogeni dovrebbero rappresentare un pericolo per me?
— Perché l'Autarca invierà certamente alcuni esploratori a localizzarli, e credo che lo farà anche l'arconte di qui. Chiunque venga trovato vicino a loro sarà ritenuto una spia, o, il che è anche peggio, qualcuno che li sta cercando nella speranza di partecipare a qualche complotto contro il Trono della Fenice.
— Capisco.
— Severian, non mi uccidere, te ne prego. Non sono una brava donna... non lo sono mai stata, da quando ho lasciato le Pellegrine, e non posso affrontare la morte adesso.
— Che cos'hai fatto, tra parentesi? Perché Abdiesus vuole che tu venga uccisa? — chiesi. — Che cosa hai fatto? — È una cosa estremamente semplice strangolare una persona i cui muscoli del collo non siano molto forti, e stavo già flettendo le mani per prepararmi alla bisogna; eppure, nello stesso tempo, mi sorpresi a desiderare che mi fosse stato permesso di usare Terminus Est.
— Ho solo amato troppi uomini, uomini che non erano mio marito.
Come mossa dal ricordo di quegli abbracci, Cyriaca si alzò e venne verso di me; ancora una volta, la luce della luna cadde sul suo volto, mostrando gli occhi lucidi per le lacrime trattenute a stento.
— Era crudele con me, tanto crudele dopo il nostro matrimonio... e così mi sono trovata un amante, e dopo di lui un altro... — (La voce si abbassò al punto che potevo sentire a stento le parole). — Ed alla fine quella di procurarmi nuovi amanti è diventata un'abitudine, un modo per respingere indietro i giorni e dimostrare a me stessa che tutta la vita non mi era ancora fluita dalle mani, dimostrare che ero ancora abbastanza giovane perché ci fossero uomini che mi portavano doni, abbastanza giovane perché ci fossero uomini che desideravano accarezzarmi i capelli. Dopo tutto, questo era quello per cui avevo lasciato le Pellegrine. — Fece una pausa, e parve raccogliere le forze. — Ti ho detto quanti anni ho?
— No — risposi.
— Ed allora non lo farò. Ma potrei quasi essere tua madre, se ti avessi concepito entro un paio di anni dal momento in cui sono divenuta donna. Allora eravamo lontano, a sud, dove il grande ghiaccio, tutto bianco ed azzurro, galleggia sui mari neri. C'era una collinetta su cui solevo sostare a guardare, e sognavo d'indossare abiti caldi e di inoltrarmi sul ghiaccio con una provvista di cibo ed un uccello ammaestrato che non ho mai avuto ma solo desiderato, per navigare sulla mia isola di ghiaccio verso nord fino a trovare un'isola di palme, dove avrei scoperto le rovine di un castello costruito nel mattino del mondo. Forse tu saresti nato allora, quando ero sola sui ghiacci: perché non dovrebbe un figlio immaginario nascere durante un viaggio immaginario? Saresti cresciuto pescando e nuotando in acque più calde del latte.
— Nessuna donna viene uccisa per le sue infedeltà, tranne che da suo marito — obiettai.
Cyriaca sospirò, ed il suo sogno si dissolse.
— Mio marito è uno dei pochi armigeri possidenti di terre che sostengono l'arconte. Gli altri sperano che disobbedendo all'arconte entro i limiti a cui osano arrivare e fomentando disordini fra gli eclettici, si possa persuadere l'Autarca a rimpiazzarlo. Io ho coperto di ridicolo mio marito... e, di riflesso, anche i suoi amici e l'arconte.
Poiché Thecla era dentro di me, vidi la villa di campagna... metà residenza e metà fortino, piena di stanze che erano scarsamente mutate in duecento anni. Sentii il chiacchiericcio delle dame ed il galoppo dei cacciatori ed il suono dei corni sotto le finestre ed il cupo abbaiare dei mastini. Era il mondo in cui Thecla aveva sperato di potersi ritirare, ed io provai pietà per quella donna che era stata costretta a ritirarvisi senza aver mai potuto conoscere più vasti orizzonti.
Proprio come nella commedia del Dr. Talos, la stanza dell'Inquisitore si trovava, con il suo alto scranno giudiziale, ad uno dei più bassi livelli della Casa Assoluta, così ognuno di noi ha, negli angoli più riposti e polverosi della mente, un banco, sedendoci al quale ci sforziamo di ripagare i debiti del passato con la svalutata moneta del presente. A quel banco, io offrii la vita di Cyrìaca come pagamento per quella di Thecla.
Quando la condussi fuori dal bersò, so che Cyriaca suppose che intendessi ucciderla sul bordo dell'acqua, ma io le indicai invece il fiume.
— Questo fiume scorre veloce verso sud fino ad incontrare il Gyoll, che, più lentamente, si spinge fino a Nessus ed infine al mare del sud. Nessun fuggitivo che non voglia essere ritrovato può essere rintracciato nel labirinto che è Nessus, perché là vi sono strade, cortili ed abitazioni innumerevoli e vi si possono vedere persone provenienti da ogni terra. Se tu potessi andarvi ora, vestita come sei, senza denaro né amici, lo faresti?
Lei annuì, portandosi una pallida mano alla gola.
— Per ora non ci sono sbarramenti per le barche al Capulus, perché Abdiesus sa di non dover temere alcun attacco via acqua fino alla metà dell'estate, ma dovrai superare le rapide delle arcate, e potresti affogare. E, anche se arriverai a Nessus, dovrai lavorare per vivere... magari lavando o cucinando per gli altri.
— So acconciare i capelli e cucire. Severian, ho sentito dire che talvolta, come ultima e più terribile tortura, dite ai vostri prigionieri che verranno liberati. Se è quello che stai facendo con me ora, ti supplico di fermarti, perché ti sei spinto troppo oltre.
— Cose del genere vengono fatte da un caloyero o da un funzionario religioso, perché nessun cliente crederebbe a noi. Ma io voglio essere certo che non farai alcuna sciocchezza come tornare a casa tua o cercare il perdono dell'arconte.
— Io sono una sciocca — rispose Cyriaca, — ma neppure una sciocca come me farebbe una cosa del genere, te lo giuro.
Seguimmo il limitare dell'acqua fino a raggiungere il cancello dove sostavano le sentinelle che avevano fatto entrare gli ospiti dell'arconte e vicino al quale erano ancorate le piccole e colorate barche di piacere. Dissi ad una delle guardie che volevamo fare un giro sul fiume e chiesi se avremmo avuto qualche difficoltà ad ingaggiare poi qualche rematore che ci riportasse a monte. Il soldato mi rispose che potevamo lasciare la barca al Capulus e tornare indietro con un fiacre. Quando la guardia si volse per riprendere la conversazione con il suo compagno, feci finta di esaminare da vicino le barche e sciolsi gli ormeggi di quella più distante dalla luce delle torce del posto di guardia.
— E così — commentò Dorcas, — ora stai andando a nord come un fuggitivo, ed io ho preso il tuo denaro.
— Non ne avrò molto bisogno, e ne guadagnerò dell'altro.
— Prendine almeno la metà. — Insistette, e, quando scossi il capo, aggiunse: — Allora prendi due crisi. Posso prostituirmi, se le cose si mettessero al peggio, o rubare.
— Se rubi, ti verrà tagliata la mano, ed è meglio che tagli io la mano agli altri per procurarmi da mangiare, piuttosto che tu perda la mano per una cena.
Feci per andarmene, ma Dorcas balzò dal letto e mi trattenne per il mantello.
— Sta' attento, Severian. C'è qualcosa... Hethor l'ha chiamata una salamandra... che circola in città. Qualsiasi cosa sia, brucia le sue vittime.
Le dissi che avevo molta più paura dei soldati dell'arconte che della salamandra, e me ne andai prima che potesse aggiungere altro. Eppure, mentre salivo su per una stretta strada lungo la riva occidentale, che, così mi avevano assicurato i miei battellieri, mi avrebbe portato in cima alla collina, mi chiesi se non avrei dovuto temere maggiormente il freddo delle montagne e le bestie selvagge che le abitavano, piuttosto che i soldati o la salamandra. Mi domandai anche come fosse riuscito Hethor a seguirmi così a nord, e perché lo avesse fatto. Ma, più che a una qualsiasi di queste cose, pensai a Dorcas, ed a ciò che lei era stata per me ed a ciò che io ero stato per lei. Sarebbe passato molto tempo prima che riuscissi anche solo a vederla di sfuggita, e credo che allora ne fui in qualche modo consapevole. Così come, quando avevo lasciato la Cittadella, mi ero tirato il cappuccio sulla testa perché i passanti non notassero il mio sorriso, ora lo tirai di nuovo, ma per nascondere le lacrime che mi colavano lungo le guance.
Prima di quella notte, avevo visto due volte la riserva d'acqua che riforniva il Vincula, ma mai con l'oscurità. Allora mi era sembrata piccola, una polla non più grande delle fondamenta di una casa e non più profonda di una tomba, mentre ora, alla luce della luna quasi svanita, mi parve quasi un lago, ed altrettanto profonda quanto la cisterna sotto la Torre della Campana.
La cisterna si trovava a meno di cento passi dal muro che difendeva i limiti occidentali di Thrax. C'erano torri su quel muro... una piuttosto vicina alla cisterna... e senza dubbio le guardie avevano ricevuto l'ordine di catturarmi se avessi tentato di fuggire dalla città. Ad intervalli, mentre camminavo lungo la collina, avevo intravisto le sentinelle che pattugliavano il muro; le loro lance non erano accese, ma gli elmi crestati erano nettamente visibili sotto le stelle, e talvolta ne riflettevano debolmente la luce.
Mi accoccolai, tenendomi voltato verso la città e facendo affidamento sul mio manto di fuliggine perché ingannasse le sentinelle. I Portali delle arcate del Capulus, fatti di solide sbarre di ferro, erano stati calati... potevo vedere l'Acis ribollire contro di essi... e questo rimuoveva ogni dubbio: Cyriaca era stata fermata... o, più probabilmente, il suo passaggio era stato notato e riferito. Poteva darsi o meno che Abdiesus facesse consistenti tentativi per ritrovarla, anche se mi sembrava più probabile che le avrebbe permesso di svanire in modo da evitare di attrarre l'attenzione su di lei. Ma, se solo avesse potuto, certo avrebbe fatto catturare me, e mi avrebbe fatto giustiziare da quel traditore delle sue leggi che ero.
Spostai lo sguardo dall'acqua ancora all'acqua, dal corso dell'Acis all'immota cisterna. Conoscevo la parola necessaria ad azionare il portello di scolo, e l'usai: l'antico meccanismo si mosse come manovrato da schiavi fantasmi, e poi anche le acque precedentemente immote presero a scorrere, più rapide dell'Acis che infuriava contro il Capulus. Molto più sotto, i prigionieri avrebbero udito il rombo dell'acqua, e quelli più vicini all'ingresso del condotto avrebbero visto la schiuma bianca del flusso. Fra poco, quelli di loro che erano in piedi si sarebbero trovati con l'acqua alle caviglie, e quelli che stavano dormendo si sarebbero affrettati ad alzarsi in piedi. Ancora un momento, poi tutti si sarebbero trovati immersi fino alla vita, ma, dato che erano incatenati ai loro posti, e che i più deboli sarebbero stati sostenuti dai più forti... speravo che nessuno sarebbe affogato. I clavigeri di guardia all'ingresso avrebbero lasciato il loro posto e si sarebbero affrettati a venire a vedere chi aveva manipolato la cisterna.
Quando tutta l'acqua se ne fu andata, sentii rotolare giù per il pendio i sassi smossi dai piedi dei clavigeri, ed allora richiusi il portello di scolo e mi calai nel passaggio fangoso e quasi verticale in cui l'acqua aveva appena finito di scorrere. La mia avanzata sarebbe stata molto più facile se non avessi dovuto trasportare Terminus Est, perché, per potermi puntellare con la schiena contro un lato di quel condotto curvo e simile ad un camino, fui costretto a sfilarmela dalla spalla, ma nello stesso tempo non potevo permettermi di occupare una mano per reggerla. Alla fine, mi passai la tracolla intorno al collo e lasciai che la lama racchiusa nel fodero mi pendesse sul petto, bilanciandone il peso meglio che potevo. Scivolai due volte, ma, in entrambi i casi, venni salvato da una svolta dello stretto condotto; alla fine, dopo aver atteso tanto tempo che mi sentivo ormai certo che i clavigeri fossero tornati al loro posto, avvistai il rosso bagliore di una torcia ed allora trassi fuori dalla sua sacca l'Artiglio.
Non l'avrei mai più visto fiammeggiare in modo così accecante, e, mentre lo tenevo sollevato nel percorrere la lunga galleria del Vincula, potei solo meravigliarmi che la mia mano non venisse incenerita. Non credo che alcuno dei prigionieri mi vedesse. L'Artiglio li affascinava, come una lanterna accesa nella notte affascina il cervo della foresta. Essi rimasero immobili, i volti barbuti ed emaciati sollevati, le bocche spalancate, le ombre alle loro spalle sottili come incise nel metallo e scure come fuliggine.
All'estremità del tunnel, dove l'acqua fuoriusciva scorrendo nel lungo ed inclinato canale di scolo che la portava al disotto del Capulus, erano collocati i prigionieri più deboli e malati, e fu allora che potei notare con la massima chiarezza la forza che l'Artiglio infondeva loro: uomini e donne che non erano più riusciti ad alzarsi in piedi a memoria del più vecchio clavigero apparivano ora alti e forti. Feci loro un cenno di saluto, anche se sono certo che non lo notarono, quindi riposi l'Artiglio del Conciliatore nella sua piccola sacca e ripiombammo tutti in un'oscurità al confronto della quale la notte di Urth sembrerebbe luminosa come il giorno pieno.
Il passaggio dell'acqua aveva ripulito il canale di scolo, e mi fu più facile discenderlo di quanto lo fosse stato discendere la conduttura della cisterna, perché questo era meno ripido e più stretto, il che mi permise di strisciare rapidamente a testa in avanti. In fondo, c'era una griglia, ma, come avevo già notato nel corso di una delle mie precedenti ispezioni, era quasi completamente divorata dalla ruggine.
XIII
SULLE MONTAGNE
La primavera era terminata e stava iniziando l'estate quando mi allontanai di soppiatto dal Capulus nella luce grigiastra, ma anche d'estate non fa mai caldo sulle montagne, salvo quando il sole picchia su di esse ed è vicino allo zenith. Tuttavia, non osai scendere nelle valli dove si annidavano i villaggi, e, per tutto il giorno, continuai a camminare, con il mio manto di fuliggine avvolto intorno ad una spalla perché sembrasse il più possibile l'abbigliamento di un eclettico. Smontai anche Terminus Est e la rimontai senza l'elsa, in modo che, vista da lontano, la spada nel fodero potesse essere scambiata per un bastone.
A mezzogiorno, il terreno su cui stavo avanzando era ormai tutto di pietra, e così diseguale da costringermi ad arrampicarmi più che a camminare; due volte scorsi sotto di me il bagliore di un'armatura, e, guardando giù, vidi drappelli di dimarchi galoppare lungo sentieri tanto pericolosi che la maggior parte delle persone non li avrebbero percorsi neppure a piedi, i loro mantelli scarlatti agitati dal vento. Non trovai piante commestibili e non incontrai altra selvaggina che non fossero uccelli da preda che volavano alti; del resto anche se avessi trovato qualcosa, non avrei avuto alcuna possibilità di abbatterla con la mia spada, e non avevo altre armi.
Tutto questo può sembrare un quadro piuttosto disperato, ma la verità è che io ero eccitato dal vasto panorama montano, lo scenario dell'impero dell'aria. Da bambini, non siamo in grado di apprezzare adeguatamente simili viste perché, non avendo ancora conservato nella nostra immaginazione spettacoli del genere, con le emozioni e le circostanze che li accompagnano, li percepiamo senza profondità psichica. Io osservavo adesso quelle vette coronate di nubi avendo nella mente il ricordo di Nessus come appariva dalla punta conica della nostra Torre di Matachin, e quello di Thrax come l'avevo vista dai bastioni del Castello di Acies, e, per quanto misera fosse la mia situazione, fui sul punto di svenire dal piacere.
Trascorsi quella notte raggomitolato al riparo di una nuda roccia. Non mangiavo da quando mi ero cambiato d'abito al Vincula, ed ora mi sembrava che fossero passate settimane, se non addirittura anni. In effetti, erano trascorsi solo pochi mesi da quando avevo portato quel consunto coltello da cucina alla povera Thecla ed avevo visto il suo sangue filtrare, come un verme carminio, sotto la porta della cella.
Se non altro, avevo scelto bene la pietra che mi riparava: essa bloccava il vento, cosicché, fintanto che rimanevo dietro di essa, avevo l'impressione di riposare nella quieta e gelida aria di una caverna, mentre solo un paio di passi a destra o a sinistra erano sufficienti ad espormi alla piena violenza del vento ed a gelarmi fino alle ossa, in un istante.
Dormii per circa un turno di guardia, credo, senza sognare nulla che rammentassi al risveglio, poi mi destai con l'impressione... che non era un sogno, ma quella sorta di consapevolezza priva di fondamento o di pseudoconsapevolezza che avvertiamo talvolta quando siamo stanchi o spaventati... che Hethor si stesse chinando su di me. Mi sembrava di sentire il suo respiro, fetido e gelido, sulla mia faccia e di vedere i suoi occhi, non più opachi, lampeggiare fissi nei miei. Quando fui perfettamente sveglio, vidi che le punte di luce che avevo scambiato per le sue pupille erano in realtà due stelle, grandi e molto brillanti nell'aria rarefatta e sottile.
Tentai di dormire ancora, chiudendo gli occhi e costringendomi a rammentare i luoghi più caldi e comodi che avevo conosciuto: la camera da artigiano che mi era stata data nella nostra torre e che mi era parsa così lussuosa, dopo il dormitorio degli apprendisti, perché singola e munita di morbide coperte; il letto che avevo una volta condiviso con Baldanders, la cui ampia schiena aveva proiettato un calore intenso come quello di una stufa; l'appartamento di Thecla nella Casa Assoluta; l'accogliente cameretta di Saltus in cui avevo alloggiato insieme a Jonas.
Nulla mi fu di aiuto: non riuscivo a dormire, ma non osavo continuare a camminare per timore di cadere in qualche precipizio a causa del buio. Trascorsi quindi il resto della notte a fissare le stelle; era la prima volta che avevo modo di osservare la maestà delle costellazioni che il Maestro Malrubius ci aveva spiegato quando io ero ancora il più piccolo degli apprendisti. Com'è strano il fatto che il cielo, che di giorno è un terreno immobile su cui si possono veder muovere le nubi, divenga di notte lo sfondo per il movimento di Urth, cosicché noi percepiamo il rotolare del pianeta sotto di noi, così come il marinaio percepisce sotto i suoi piedi il moto della marea. Quella notte, avvertii con tanta forza questo movimento che il continuo roteare del pianeta mi fece quasi venire le vertigini.
Era forte in me anche la sensazione che il cielo fosse un pozzo senza fondo in cui l'universo sarebbe precipitato per sempre. Avevo sentito dire che, se si fissano le stelle troppo a lungo, si prova la terribile sensazione di essere trascinati via da esse. Il mio timore... ed avevo paura... non era però quello generato dai soli remoti, ma piuttosto dal vuoto sbadigliante; in certi momenti il mio terrore arrivò ad un punto tale da spingermi ad afferrare la roccia con le dita gelate, perché mi sembrava di essere sul punto di precipitare dalla superficie di Urth. Indubbiamente, siamo tutti soggetti a questo tipo di timore, dal momento che si dice che non esista clima tanto mite da permettere alla gente di dormire all'aperto.
Ho già narrato come mi fossi svegliato con la sensazione che il volto di Hethor mi stesse fissando (credo perché avevo pensato molto ad Hethor da quando avevo parlato con Dorcas), e di come avessi scoperto, nell'aprire gli occhi, che di quel volto non rimaneva alcun particolare salvo le due stelle brillanti che avevo scambiate per occhi. Inizialmente, cercai di riconoscere le costellazioni, di cui avevo spesso letto i nomi, anche se avevo solo un'idea molto vaga della parte di cielo in cui era possibile individuarle. Dapprima, tutte quelle stelle mi parvero un tremendo ammasso di luci privo di lineamenti, per quanto splendido, come le scintille che scaturiscono da un fuoco, ma, naturalmente, cominciai ben presto a notare che alcune erano più luminose di altre e che i loro colori non erano per nulla uniformi. Poi, in modo inaspettato, dopo che le stavo fissando ormai da molto tempo, la forma di un perytone parve balzare fuori dalla massa altrettanto distintamente come se l'intero corpo dell'uccello fosse stato cosparso di una polvere di diamanti. L'istante successivo era scomparso, ma riapparve ben presto, e, con esso, altre forme, alcune corrispondenti alle costellazioni di cui avevo sentito parlare, altre che erano, temo, un prodotto esclusivo della mia immaginazione. Particolarmente chiara mi apparve un'amphisbaena, cioè un serpente con una testa a ciascuna estremità del corpo.
Quando tutti quegli animali celesti mi apparvero, rimasi incantato dalla loro bellezza, ma non appena mi fu chiaro (il che accadde ben presto) che non li potevo cancellare con un semplice atto di volontà, cominciai a sentirmi atterrito da essi come lo ero stato dal notturno abisso in cui quelle creature si muovevano. Eppure, questo non era un terrore semplicemente fisico ed istintivo come l'altro, ma piuttosto una sorta di filosofico orrore di fronte al pensiero di quel cosmo in cui erano state tracciate rozze immagini di bestie e di mostri, dipinte con soli fiammeggianti.
Dopo che mi fui coperto la testa con il mantello, cosa che fui costretto a fare per non impazzire, mi trovai a riflettere sui mondi che ruotavano intorno a quei soli. Tutti noi sappiamo che essi esistono, che molti di loro sono semplici ed interminabili pianure rocciose, altri sfere di ghiaccio o di colline di cenere solcate da fiumi di lava, come si dice che sia Abaddon; ma molti altri mondi, più o meno belli, sono abitati da creature discese dal ceppo umano o almeno non troppo diverse da noi. Inizialmente pensai a cieli verdi e ad erba azzurra ed a tutte quelle fantasie infantili che sono solite assalire la mente che cerca di concepire l'immagine di mondi diversi da Urth, ma alla fine mi stancai di quelle idee puerili e cominciai invece a riflettere sull'esistenza di società e forme di pensiero completamente dissimili dalle nostre, su mondi in cui tutti gli abitanti, sapendo di discendere da un'unica coppia di coloni, si trattavano come fratelli e sorelle, su mondi dove non c'era altra moneta corrente che l'onore, per cui ognuno lavorava solo per poter essere autorizzato ad associarsi con qualche uomo o donna che avesse salvato la comunità, su mondi, infine, in cui non esisteva più la lunga guerra combattuta fra gli uomini e le bestie. Insieme a questi pensieri, me ne vennero centinaia di altri nuovi... come la giustizia potesse essere eliminata là dove tutti si amavano, per esempio; come un mendicante che non possedeva più altro che la sua umanità potesse mendicare un po' di onore, o come potesse riuscire a vestirsi ed a nutrirsi un popolo che non intendeva uccidere alcun animale senziente.
Quando mi ero reso per la prima volta conto, da ragazzo, del fatto che il verde cerchio della luna era in realtà una sorta di isola sospesa nel cielo, il cui colore derivava dalle foreste, ormai presenti da tempo immemorabile, piantate nei primi tempi dell'esistenza della razza dell'Uomo, era maturata in me la decisione di andare lassù, decisione cui si era aggiunta quella di visitare tutti gli altri mondi dell'universo, allorché ero arrivato a sapere della loro esistenza. Avevo abbandonato quel desiderio come fase (pensavo) del divenire adulto, quando avevo appreso che soltanto persone che occupavano posizioni sociali per me apparentemente irraggiungibili riuscivano ad abbandonare la superficie di Urth.
Ora che quell'antico desiderio si era riacceso, sebbene il passare degli anni lo avesse fatto divenire ancora più assurdo (perché certo il piccolo apprendista che ero stato un tempo aveva avuto più possibilità di viaggiare fra le stelle di quante ne avesse il fuorilegge fuoricasta che ero divenuto), si era fatto molto più forte e deciso, perché nel frattempo avevo imparato quanto fosse stupido limitare al possibile i propri desideri. Sarei andato, ero deciso a farlo. Per il resto della mia vita sarei stato incessantemente pronto a cogliere ogni opportunità in quel senso, per quanto minima. Già una volta mi ero trovato da solo in presenza degli specchi di Padre Inire, e Jonas, molto più saggio di me, si era gettato senza esitazione nella marea di fotoni. Chi poteva dire che non sarei più riuscito a trovarmi da solo davanti a quegli specchi?
Con quel pensiero in mente, mi tolsi il mantello dalla testa, deciso a guardare di nuovo le stelle, e scoprii che la luce del sole era trapelata fra le cime delle montagne, attenuando il brillio delle stelle fino a farle sembrare insignificanti. I volti titanici che incombevano su di me erano ora soltanto quelli dei governanti di Urth da lungo tempo deceduti, intagliati nei monti e resi sparuti dal tempo, le guance incavate dalle valanghe.
Mi alzai in piedi e mi stiracchiai. Era evidente che non potevo trascorrere quel giorno senza mangiare, come avevo trascorso la notte precedente, ed era ancor più evidente che non avrei potuto passare all'addiaccio la prossima notte, riparato solo dal mio mantello. Pertanto, pur non osando ancora discendere nelle valli popolate, predisposi il mio cammino in modo che mi portasse verso le alte foreste che potevo vedere sui pendii sottostanti il punto in cui mi trovavo.
Impiegai la maggior parte della mattinata a raggiungere le foreste, e, quando finalmente arrivai alle betulle nane che ne costituivano l'avanguardia, notai che la foresta, pur essendo situata molto più in pendenza di quanto mi fosse parso, conteneva, verso il centro, dove il suolo era più pianeggiante e quindi il terriccio più ricco, alberi di considerevole altezza, così ravvicinati che gli spazi fra i vari tronchi erano di poco più larghi dei tronchi stessi. Quelle piante non avevano, naturalmente, le foglie lucide caratteristiche degli alberi delle foreste tropicali che ci eravamo lasciati alle spalle sulla riva meridionale del Cephissus. Queste erano per lo più conifere dall'irta corteccia, alberi alti e dritti che si allontanavano dalla montagna e mostravano chiaramente sulle loro superfici le ferite lasciate dalle battaglie sostenute contro il vento ed i lampi.
Ero mosso dalla speranza di riuscire ad imbattermi in qualche taglialegna o cacciatore, dai quali avrei potuto pretendere quell'ospitalità che tutti (almeno così ama credere la gente di città) si sentono obbligati ad offrire in terre selvagge. Per parecchio tempo, tuttavia, quella mia speranza venne delusa; mi soffermai ripetutamente ad ascoltare, nella speranza di udire il suono di un'ascia o un abbaiare di cani; ma c'era soltanto silenzio, ed in effetti, sebbene quegli alberi avrebbero potuto fornire una gran quantità di legname, non notai alcun segno che indicasse che venivano tagliati.
Alla fine, m'imbattei in una piccola sorgente di acqua gelida che serpeggiava fra gli alberi, fiancheggiata da tenere felci nane e da erba sottile come capelli. Bevvi a volontà, e, per forse mezzo turno di guardia seguii il suo corso giù per il pendio attraverso una successione di cascate in miniatura e di laghetti montani, rimanendo meravigliato, come indubbiamente era accaduto ad altri nel corso d'innumerevoli chiliadi, nel notare che il rivoletto s'ingrandiva, pur non avendo raccolto le acque di alcun visibile affluente.
Alla fine, il ruscello si era ingrossato al punto di minacciare anche gli alberi più grossi, ed io vidi più avanti il tronco di uno di essi, largo almeno quattro cubiti, che era caduto attraverso il ruscello che ne aveva minato le radici. Mi avvicinai senza nessuna precauzione, perché non c'era alcun rumore che mi potesse mettere in guardia, e, sostenendomi ad uno spuntone, balzai sul tronco con un volteggio.
Per poco non precipitai in un oceano d'aria. I bastioni del Castello di Acies, dall'alto dei quali avevo scorto Dorcas in preda alla disperazione, sembravano la semplice balaustra di un balcone se paragonati all'altezza cui ora mi trovavo, e certo il Muro di Nessus è la sola opera dell'uomo che possa rivaleggiare con quel precipizio. Il ruscello cadeva silenzioso in un golfo d'aria che lo trasformava in spuma, in modo da farlo svanire in un arcobaleno. Gli alberi sottostanti parevano giocattoli costruiti da un padre indulgente per il suo bambino, e, al loro limitare, con un piccolo campo alle spalle, vidi una casa non più grande di un ciottolo, con uno sbuffo di fumo, simile allo spettro del nastro d'acqua che era precipitato e morto, che si levava per poi scomparire anch'esso nel nulla.
All'inizio, la discesa dall'altura mi parve fin troppo semplice, poiché la spinta che mi ero dato mi aveva quasi portato al di là del tronco caduto, che giaceva a sua volta per metà oltre l'orlo del precipizio; quando ebbi recuperato l'equilibrio, tuttavia, la discesa mi parve impossibile. La superficie di roccia era liscia per vasti tratti, per quel che potevo vedere, e, anche se con una corda avrei potuto calarmi giù e raggiungere così la casa prima di notte, io non avevo una corda con me, e poi non sarebbe stato molto saggio affidarsi ad una fune abbastanza lunga da superare quel baratro.
Dedicai comunque qualche tempo all'esplorazione della vetta della collina, ed alla fine scoprii un sentiero che, per quanto molto stretto e ripido, mostrava inconfondibili segni di uso corrente. Non riferirò i dettagli della discesa, che in realtà hanno ben poco a che fare con la mia storia, anche se, come si può immaginare, in quel momento richiesero tutta la mia concentrazione. Imparai ben presto a guardare soltanto il sentiero e la parete dell'altura, alla mia destra o a sinistra, a seconda delle svolte della pista, che, per la maggior parte della sua lunghezza, era una ripida discesa larga un cubito ed anche meno. Di tanto in tanto, il sentiero si trasformava in una serie di scalini tagliati nella viva roccia, ed in un punto c'erano solo rientranze per le mani ed i piedi, che discesi come fossero stati una scaletta. Quegli appigli erano molto più comodi, riflettei, se considerati obiettivamente, delle crepe cui mi ero aggrappato di notte all'imboccatura della miniera degli uomini-scimmia, e stavolta mi ero almeno risparmiato il trauma di essere preso di mira da quadrelle di balestre; ma l'altitudine era cento volte maggiore, e faceva girare la testa.
Forse perché ero tanto concentrato nella mia faticosa discesa da essere costretto ad ignorare il precipizio sull'altro lato, divenni ben presto acutamente conscio della vasta e sezionata fetta di crosta del mondo lungo la quale stavo strisciando. Nei tempi antichi... così avevo letto una volta su uno dei testi consegnatimi dal Maestro Palaemon, la terra di Urth era viva, e gli spostamenti del suo cuore vivo facevano eruttare le pianure come fontane e talvolta spalancavano di notte il mare fra isole che fino al precedente tramonto erano state un unico continente. Ora si dice che quel cuore sia morto e si stia raffreddando e riducendo all'interno del suo involucro di pietra come il corpo di una vecchia, in una di quelle case abbandonate che Dorcas mi aveva descritto, che si fosse mummificato nell'aria immota e secca. Così, si dice, sta accadendo ad Urth, e qui una metà della montagna si era staccata dalla sua controparte ed era precipitata ad almeno una lega di distanza.
XIV
LA CASA DELLA VEDOVA
A Saltus, dove Jonas ed io rimanemmo per qualche giorno, e dove ebbi modo di eseguire la seconda e la terza decapitazione pubblica della mia carriera, i minatori derubano il suolo dei metalli, della pietra per costruire e perfino di artefatti prodotti da civiltà dimenticate da chiliadi ancor prima che sorgesse il Muro di Nessus. I minatori fanno questo praticando alcuni pozzi nei fianchi delle colline e scendendo fino a che non trovano un ricco strato di rovine o perfino (se sono particolarmente fortunati) un edificio che abbia conservato intatta una parte della sua struttura e che possa fungere da galleria.
Quello che a Saltus veniva fatto con tanta difficoltà avrebbe potuto essere realizzato quasi senza sforzo in quella collina lungo la quale stavo scendendo. Il passato giaceva accanto alla mia spalla, indifeso e nudo come lo sono tutte le cose morte, come se il tempo stesso fosse stato sventrato dalla caduta della montagna. In certi punti, ossa fossili sporgevano dalla superficie, ossa di possenti animali e di uomini, e la foresta aveva lasciato là anche i suoi morti, monconi e rami che il tempo aveva tramutato in pietra, tanto che, nel discendere, mi chiesi se è possibile che Urth non sia, come noi presumiamo, più vecchia dei suoi figli, gli alberi, ma il contrario, e m'immaginai gli alberi che crescevano nel vuoto davanti al sole, uno aggrappato all'altro per mezzo delle radici intrecciate e dei rami, fino a che alla fine il loro accumularsi si era trasformato nella nostra Urth ed essi erano divenuti un semplice ornamento della sua superficie.
Più in profondità, giacevano le costruzioni e gli apparecchi dell'umanità (e forse anche di altre razze, perché parecchie storie narrate nel libro marrone che portavo con me sembravano sottintendere che una volta fossero esistite qui colonie di quegli esseri che noi chiamiamo cacogeni, anche se essi sono in effetti una miriade di razze, ciascuna distinta dalle altre come la nostra.) Vidi metalli che erano verdi e blu nello stesso modo in cui si dice che il rame è rosso o l'argento bianco, metalli colorati lavorati in un modo tanto strano che non potevo capire con certezza se la loro forma era stata dettata da intenti artistici o se essi avevano fatto parte di strani meccanismi, anche se era possibile che per gli appartenenti a quegli strani popoli non esistesse distinzione fra le due cose.
Ad un certo punto, quando mi trovavo circa a metà della discesa, la linea del crollo venne a coincidere con la parete piastrellata di un qualche grande edificio, cosicché il sentiero che stavo percorrendo dovette attraversarla. Non riuscii mai a capire che cosa fosse il disegno tracciato con le piastrelle, perché mentre scendevo ero troppo vicino ad esso per distinguerlo con chiarezza, e quando finalmente arrivai in basso, l'edificio era ormai troppo in alto per essere visibile, perso nella nebbiolina generata dalla cascatella. Eppure, mentre camminavo, vidi quel disegno come un insetto può vedere la superficie di un ritratto su cui sta strisciando. Le piastrelle avevano molte forme, anche se aderivano così bene le une alle altre, ed inizialmente pensai che rappresentassero uccelli, lucertole, pesci ed altre creature simili, anche se ora sento che non era così, e che esse raffiguravano invece forme geometriche che io non potevo comprendere, diagrammi tanto complessi che in essi sembravano apparire forme viventi, così come le forme dei veri animali appaiono dall'intricata geometria delle molecole.
Comunque, quelle forme avevano ben poca connessione con la pittura o con il disegno. Linee di colore le attraversavano, e, anche se esse dovevano essere state consolidate nella superficie delle piastrelle parecchi eoni prima, sembrava che fossero state tracciate appena pochi secondi prima dal pennello di un qualche titanico artista. Le tonalità più usate erano il berillio ed il bianco, ma, sebbene mi arrestassi parecchie volte e mi sforzassi di capire cosa poteva essere rappresentato (una scritta, un volto, un semplice disegno decorativo di linee ed angoli, una riproduzione di ramoscelli intrecciati), non vi riuscii mai. Forse quel disegno rappresentava ciascuna di quelle cose, o forse nessuna, a seconda della posizione da cui lo si osservava e della predisposizione mentale dell'osservatore.
Una volta superato quell'enigmatico muro, la discesa si fece più facile. Non fui più costretto a calarmi lungo un tratto quasi verticale, e, sebbene ci fossero altre file di scalini, essi non erano più stretti e ripidi come in precedenza. Raggiunsi il fondo prima di quanto mi sarei aspettato, e fissai il sentiero lungo il quale ero disceso, con meraviglia, quasi non l'avessi mai visto prima... ed in realtà, potevo vedere diversi punti in cui esso sembrava interrotto dal crollo di intere sezioni di muro, in modo da apparire invalicabile.
La casa che avevo avvistato tanto chiaramente dall'alto era adesso invisibile, nascosta fra gli alberi, ma il fumo del camino si levava ancora nel cielo. Mi aprii il passo attraverso una foresta meno in pendenza di quella attraversata dal ruscello. Gli alberi scuri sembravano più vecchi, ed erano assenti le grandi felci del meridione; anzi, devo dire che non le ho mai viste a nord della Casa Assoluta, fatta eccezione per quelle coltivate nel giardino di Abdiesus. C'erano però violette selvatiche, dalle foglie lucenti e dai fiori dell'esatto colore degli occhi della povera Thecla, che crescevano fra le radici degli alberi, e muschio che ricordava uno spesso velluto verde, cosicché sembrava che il suolo fosse tappezzato e gli alberi drappeggiati di quel costoso tessuto.
Qualche tempo prima di avvistare la casa o di percepire qualsiasi altro segno di presenza umana, udii l'abbaiare di un cane. A quel suono, il silenzio e la meraviglia creati dagli alberi si dissolsero, rimanendo presenti ma infinitamente più distanti. Percepii anche una qualche misteriosa forma di vita, antica e strana, ma al contempo familiare, che, dopo essere stata sul punto di rivelarsi a me, si era tratta indietro come una qualche persona molto importante, forse un maestro dei musicisti, che io avessi cercato per anni di attirare nella mia casa ma che, al momento di bussare, avesse udito la voce di un altro ospite a lui sgradito, e si fosse allontanato per non tornare mai più.
Eppure com'era confortevole quel suono! Per quasi due interi e lunghi giorni, mi ero trovato assolutamente solo, dapprima su erti terreni sassosi, poi immerso nella gelida bellezza delle stelle, ed infine circondato dal sommesso respiro degli antichi alberi. Ora quel rumore aspro e familiare mi fece pensare ancora una volta alle comodità umane... non solo pensare, ma anche immaginarle in modo tanto vivido che mi parve di sperimentarle di già. Sapevo che, quando lo avessi visto, il cane sarebbe stato simile a Triskele, ed infatti lo era, con quattro zampe invece di tre, con il cranio un po' più lungo e stretto ed il pelo dal colore più marrone che leonino, ma con la stessa lingua penzolante, coda dondolante ed occhi danzanti. Il cane iniziò una dichiarazione di guerra, ma la sospese non appena gli ebbi parlato, e ben presto mi offrì la testa perché lo grattassi dietro gli orecchi, cosicché raggiunsi la radura in cui sorgeva la casa con la bestiola che mi saltellava intorno.
Le mura erano di pietra, ed appena più alte della mia testa, il tetto di paglia era ripido come mi era parso, e punteggiato di pietre piatte che trattenevano la paglia contro la furia del vento. In breve, quella era la casa di uno di quei paesani pionieri che sono la gloria e la disperazione della nostra Repubblica, che magari un anno producevano un sovrappiù del cibo che serviva a nutrire la popolazione di Nessus, ma che l'anno dopo dovevano essere nutriti essi stessi perché non morissero di fame.
Quando davanti ad una porta non esiste un sentiero pavimentato, si può giudicare la frequenza con cui viene varcata la soglia, in un senso o nell'altro, dalla quantità di erba che cresce sul suolo calpestato. Qui c'era solo un cerchietto di polvere grande quanto un fazzoletto davanti allo scalino di pietra e, quando lo notai, pensai che avrei potuto spaventare la persona che viveva nella capanna (perché supposi che doveva essercene una sola), se fossi entrato senza annunciarmi, per cui, dal momento che il cane aveva smesso già da un pezzo di abbaiare, mi arrestai al margine della radura e gridai un saluto.
Gli alberi ed il cielo lo inghiottirono, lasciando solo il silenzio.
Gridai ancora, ed avanzai verso la porta con il cane alle calcagna, e l'avevo quasi raggiunta quando una donna apparve sulla soglia. Aveva un volto delicato che avrebbe potuto essere bello se non fosse stato per gli occhi tormentati, ma il suo abito lacero differiva da quello di una mendicante solo per il fatto che era pulito. Un momento più tardi, il volto rotondo di un ragazzino, dagli occhi più grandi di quelli della madre, fece capolino dietro alle gonne di quest'ultima.
— Mi spiace se ti ho spaventata — dissi, — ma mi sono perso in queste montagne.
La donna annui, esitò, poi si trasse indietro dalla soglia ed io entrai. All'interno dei muri spessi, la casa era ancora più piccola di quanto avessi supposto, ed era impregnata del pungente odore di un qualche vegetale che stava bollendo in una pentola appesa sul fuoco. Le finestre erano poche e piccole, e, a causa dello spessore delle pareti, sembravano più riquadri di ombra che aperture luminose. Un vecchio sedeva su una pelle di pantera, con la schiena rivolta al fuoco, ed i suoi occhi erano talmente sfocati e privi d'intelligenza che in un primo momento lo credetti cieco. In un angolo della stanza c'era un tavolo che aveva intorno cinque sedie, di cui tre sembravano essere state costruite per adulti. Mi rammentai quanto aveva detto Dorcas circa il fatto che il mobilio contenuto nelle case abbandonate di Nessus veniva rivenduto agli eclettici che avevano adottato usi più civilizzati, ma quel mobilio sembrava fabbricato sul posto.
— Mio marito tornerà presto — osservò la donna, notando la direzione del mio sguardo. — Prima di cena.
— Non ti devi preoccupare — ripetei. — Non voglio farvi alcun male. Se mi permetterai di dividere la vostra cena e di dormire stanotte al riparo dal freddo, e se mi darai domattina indicazioni per trovare la strada, sarò ben lieto di aiutarti a finire qualsiasi lavoro ci sia da far qui.
La donna annuì, ed il bambino cinguettò, cosa del tutto inaspettata:
— Hai visto Severa?
Sua madre gli si rivolse contro con una rapidità tale da farmi venire in mente il Maestro Gurloes quando ci mostrava le prese da usare per controllare i prigionieri. Sentii il colpo, anche se non riuscii a vederlo, e udii il ragazzino gridare. Sua madre si mosse per ostruire la porta, ed il bambino si nascose dietro una cassapanca che si trovava nell'angolo della stanza più lontano da lei. Allora compresi, o credetti di comprendere, che Severa doveva essere una ragazza o una donna che la madre del bambino considerava più vulnerabile di se stessa ed a cui lei aveva ordinato di nascondersi (probabilmente nel soppalco sotto il tetto) prima di lasciarmi entrare. Ritenni che avrei sprecato fiato a protestare ulteriormente che le mie intenzioni erano buone, perché era chiaro che la donna, se era ignorante, non era però una sciocca, e decisi che il modo migliore per guadagnarmi la sua fiducia era di meritarmela. Cominciai quindi con il chiederle un po' d'acqua per lavarmi, e dissi che sarei stato ben lieto di andarla a prendere alla loro fonte, se lei mi avesse poi permesso di scaldarla sul fuoco. La donna mi diede un recipiente e mi spiegò dove fosse la sorgente.
In varie occasioni, ho visitato la maggior parte dei luoghi che vengono considerati romantici nel senso convenzionale del termine... in cima ad alte torri, giù nelle viscere della terra, all'interno di palazzi, nella giungla, a bordo di una nave... eppure nessuno di quei luoghi mi ha mai colpito nella stessa misura di quella povera capanna di pietre. Essa mi sembrava l'archetipo di quelle grotte in cui, come c'insegnano gli studiosi, l'umanità si è rifugiata ogni volta che ha raggiunto il punto più basso di ciascun ciclo di civilizzazione. Ogni volta che ho udito o letto la descrizione di un idilliaco ritiro rustico (ed era un'idea che Thecla amava molto), esso era organizzato in modo ordinato e pulito, con un letto di foglie di menta sotto una finestra, la legna affastellata contro la parete più fredda, un lucido pavimento di lastrico e così via. Qui non c'era nulla di tutto questo, nulla d'ideale, eppure quella casa appariva più perfetta in ragione di tutte le sue imperfezioni, perché dimostrava come esseri umani potessero vivere ed amare in un luogo tanto isolato, pur senza la capacità di trasformare l'ambiente circostante in un poema.
— Ti radi sempre con la spada? — mi chiese la donna. Era la prima volta che mi parlava senza stare in guardia.
— È un'usanza, una tradizione. Se la spada non fosse abbastanza affilata da poter servire come rasoio, mi vergognerei di portarla. E se è abbastanza affilata, che bisogno ho di un rasoio?
— Eppure, deve essere difficile tener sollevata una simile lama, e tu devi prestare molta attenzione per non tagliarti.
— L'esercizio rafforza il mio braccio, e poi, è un bene che io maneggi la spada ogni volta che ne ho l'occasione, in modo che essa mi divenga familiare come i miei arti.
— Allora sei un soldato. Lo pensavo.
— Sono un macellatore di uomini.
— Non intendevo insultarti — replicò la donna, apparentemente interdetta per la mia risposta.
— Non mi hai insultato. Tutti uccidiamo certe cose... tu hai ucciso quelle radici che sono nella pentola quando le hai messe a bollire nell'acqua. Quando uccido un uomo, io salvo la vita di tutte le cose viventi che lui avrebbe distrutto se avesse continuato a vivere, compresi forse molti altri uomini e donne e bambini. Che cosa fa tuo marito?
A quelle parole, la donna sorrise leggermente: era la prima volta che la vedevo sorridere, e la faceva sembrare molto più giovane.
— Tutto. Un uomo deve saper fare di tutto, quassù.
— Allora non siete nati qui.
— No — rispose. — Solo Severian... — Il suo sorriso svanì.
— Hai detto Severian?
— È il nome di mio figlio. L'hai visto al tuo arrivo, ed ora ci sta spiando. Qualche volta è un ragazzo sventato.
— Questo è anche il mio nome. Io sono il Maestro Severian.
— Hai sentito? — gridò la donna al ragazzo. — Questo buonuomo si chiama come te! — Poi tornò a rivolgersi a me. — Pensi che sia un bel nome? Ti piace?
— Temo di non averci mai riflettuto molto, ma, sì, suppongo di sì: mi sembra che mi si addica. — Avevo finito di radermi, e sedetti su una delle sedie per occuparmi della lama.
— Io sono nata a Thrax — continuò la donna. — Ci sei mai stato?
— Ne vengo ora — risposi, perché tanto, se i dimarchi avessero dovuto interrogarla dopo la mia partenza, la descrizione del mio abito sarebbe stata sufficiente a tradirmi.
— Hai mai incontrato una donna chiamata Herais? È mia madre.
Scossi il capo.
— Bene, è una grande città, credo. Ci sei rimasto a lungo?
— No, per poco. Mentre vivevi su queste montagne, hai sentito parlare delle Pellegrine? Sono un ordine di sacerdotesse vestite di rosso.
— Temo di no. Non ci arrivano molte notizie, qui.
— Sto tentando di trovarle, o, se non vi riuscissi, di unirmi all'esercito che l'Autarca ha inviato contro gli Asciani.
— Mio marito potrebbe darti migliori indicazioni di quanto possa fare io. Comunque, non avresti dovuto spingerti tanto in alto. Becan... mio marito... dice che le pattuglie non infastidiscono mai i soldati quando questi percorrono le vecchie strade.
Mentre la donna parlava dei soldati che si muovevano verso nord, qualcun altro, molto più vicino a noi, si mosse a sua volta. Fu un movimento talmente furtivo da essere quasi impercettibile a causa dello scoppiettio del fuoco e del rauco respiro del vecchio, ma era ugualmente un suono inconfondibile di piedi nudi che, incapaci di mantenere più a lungo l'assoluta immobilità richiesta dal silenzio, si erano mossi con molta cautela, facendo tuttavia scricchiolare le assi per via della nuova distribuzione di peso.
XV
EGLI TI PRECEDE!
Il marito che sarebbe dovuto arrivare prima di cena non arrivò e noi quattro... la donna, il vecchio, il bambino ed io... mangiammo il pasto serale senza di lui. Io avevo all'inizio pensato che il suo preannunciato arrivo non fosse che una menzogna intesa a distogliermi da qualsiasi atto criminale potessi avere in mente, ma poi, man mano che il cupo pomeriggio trascorreva in quel silenzio che fa presagire una tempesta imminente, divenne evidente che la donna credeva in quel che mi aveva detto e che ora era sinceramente preoccupata.
La nostra cena fu il pasto più semplice che fosse possibile immaginare, ma la mia fame era tale che essa fu uno di quei pasti che rammento con maggior gratitudine. Mangiammo vegetali bolliti senza sale né burro, pane secco e poca carne. Non c'erano né vino né frutta, nulla di fresco o di dolce, eppure credo di aver mangiato più di tutti gli altri tre messi insieme.
Quando terminammo la cena, la donna (il cui nome appresi essere Casdoe) prese da un angolo un lungo bastone dalla punta di ferro e si dispose ad andare a cercare il marito, assicurandomi che non aveva bisogno di essere scortata e dicendo al vecchio, che non parve ascoltarla, che non si sarebbe allontanata troppo, ma sarebbe tornata presto. Notando che il vecchio rimaneva come sempre distratto, vicino al fuoco, convinsi il bambino a venirmi vicino, e mi guadagnai la sua confidenza permettendogli di vedere Terminus Est e perfino di tenerla per l'elsa e di cercare di sollevarla; gli chiesi quindi perché Severa non scendeva a prendersi cura di lui, ora che sua madre era fuori.
— È tornata la notte scorsa — mi rispose il ragazzo.
— Sono certo che tornerà anche stanotte — replicai, convinto che stesse parlando di sua madre, — ma non pensi che Severa dovrebbe prendersi cura di te, ora che la mamma è fuori?
Come fanno talvolta i ragazzi, quando non hanno abbastanza dimestichezza con il linguaggio per discutere, il bambino scrollò le spalle e tentò di allontanarsi, ma io lo fermai.
— Ora, piccolo Severian, voglio che tu salga di sopra e le dica di scendere. Prometto che non le farò alcun male.
Il bambino annuì e si diresse con riluttanza verso la scaletta, dicendo:
— È una donna cattiva.
Poi, per la prima volta da quando ero entrato in quella casa, il vecchio parlò.
— Becan, vieni qui! Ti voglio parlare di Fechin.
Ci misi un momento prima di comprendere che si stava rivolgendo a me, nella convinzione che io fossi suo genero.
— Era il peggiore di tutti noi, quel Fechin. Un ragazzo alto e selvaggio con peli rossi sulle mani e sulle braccia, come una scimmia, cosicché se vedevi sporgere una mano da dietro un angolo per afferrare qualcosa, potevi capire solo dalle dimensioni della mano che non si trattava di una scimmia. Una volta prese la nostra padella di rame, quella che Mamma usava per cuocere la salsa, ed io ho visto il suo braccio, ma non ho detto chi era stato, perché lui era mio amico. Non l'ho mai ritrovata né rivista, sebbene sia stato con lui migliaia di volte. Credo che l'abbia usata per farci una barca e l'abbia varata nel fiume, perché questo era quello che avrei voluto farci io stesso. Mi sono avviato lungo il fiume per cercarla, ed è scesa la notte prima che me ne accorgessi, prima ancora che mi fossi avviato verso casa. Forse avrà lucidato il fondo per specchiarsi... qualche volta amava dipingere se stesso. Forse avrà riempito la padella d'acqua per specchiarvisi.
Avevo attraversato la stanza e mi ero avvicinato per ascoltarlo, in parte perché parlava confusamente ed in parte per rispetto, perché il suo volto venerando mi ricordava un poco quello del Maestro Palaemon, anche se differiva nello sguardo.
— Una volta ho incontrato un uomo della tua età che aveva posato per Fechin — dissi.
Il vecchio sollevò gli occhi verso di me, e, rapida come l'ombra di un uccello che voli su uno straccio gettato sull'erba, vidi passare sul suo volto la consapevolezza, che però svanì subito, che io non ero Becan.
L'uomo non smise di parlare né rilevò in alcun altro modo la cosa: era come se quello che aveva da dire fosse tanto impellente da dover essere detto a qualcuno, riversato in un qualsiasi orecchio prima che andasse perduto per sempre.
— Il suo viso non era affatto quello di una scimmia. Fechin era bello... il più bello di tutti, e riusciva sempre ad ottenere cibo e denaro dalle donne, riusciva ad ottenere qualsiasi cosa dalle donne. Mi ricordo una volta che stavamo camminando lungo una pista che portava al punto in cui sorgeva il vecchio mulino. Io avevo un pezzo di carta che mi era stato dato dal maestro di scuola. Carta vera, anche se non era bianca ma aveva sfumature marroni e qualche puntino qua e là, che la facevano somigliare ad una trota nel latte. Il Maestro me l'aveva data perché potessi scrivere una lettera a mia madre... a scuola scrivevamo sempre sulle lavagne, poi le pulivamo con una spugna quando dovevamo scrivere ancora e quando nessuno ci guardava tiravamo le spugne contro i muri o contro la testa di qualcuno. Ma Fechin amava disegnare, e, mentre camminavamo, io ci pensai e pensai a che faccia avrebbe fatto se avesse avuto un po' di carta su cui tracciare un disegno da conservare.
«I disegni erano l'unica cosa che conservava. Tutto il resto lo perdeva oppure lo regalava o lo gettava, ed io, siccome sapevo quello che a mia madre interessava soprattutto, decisi che, se avessi scritto in piccolo, avrei potuto far stare tutto su metà del foglio di carta. Fechin ignorava che avevo la carta, ma io la tirai fuori, gliela feci vedere, poi la piegai e la divisi in due.
Sopra le nostre teste, potevo sentire la vocetta del bambino, anche se non capivo cosa stesse dicendo.
— Quello era il giorno più bello che abbia mai visto — proseguì il vecchio. — Il sole sembrava avere in sé nuova vita, come accade ad un uomo che è stato male ieri e starà ancora male domani, ma che oggi si muove, cammina e ride, cosicché se uno straniero dovesse vederlo concluderebbe che non è affatto malato e che il letto e le medicine sono per qualcun altro. Nelle preghiere si dice sempre che il Nuovo Sole sarà troppo luminoso perché lo si possa guardare, e, fino a quel giorno, io avevo sempre creduto che fosse solo un adeguato modo di dire, come si dice che un bimbo è bello o si loda qualsiasi cosa un brav'uomo abbia fatto con le sue mani, e che, anche se ci fossero stati due soli in cielo, sarebbe stato possibile fissarli entrambi. Ma quel giorno imparai che le preghiere erano vere, perché la luce che apparve sul volto di Fechin fu tale che non potei sopportarla e mi fece lacrimare gli occhi. Fechin mi ringraziò e proseguimmo fino a raggiungere una casa in cui viveva una ragazza. Non riesco a ricordarmi il suo nome, ma era davvero bella, nel modo in cui lo sono talvolta le ragazze più quiete. Fino a quel momento non avevo avuto idea che Fechin la conoscesse, ma egli mi chiese di aspettare, ed io sedetti sul primo gradino davanti al cancello.
Qualcuno più pesante del bambino stava camminando sopra le nostre teste verso la scaletta.
— Non rimase dentro a lungo — continuò il vecchio, — ma quando venne fuori, e la ragazza si affacciò alla finestra, capii cosa avevano fatto. Fissai Fechin, che allargò le sue magre e lunghe braccia da scimmia. Come poteva dividere con me quello che aveva avuto? Alla fine, convinsi la ragazza a darmi un pezzo di pane ed un po' di frutta, quindi tracciò il mio ritratto su una facciata del foglio e quello della ragazza sull'altra, ma se le tenne entrambe.
La scaletta scricchiolò ed io mi volsi a guardare. Come mi ero aspettato, stava scendendo una donna. Non era alta, ma aveva la figura piena e la vita stretta, ed il suo abito era quasi altrettanto stracciato quanto quello della madre del ragazzo, ma molto più sporco. Abbondanti capelli castani le ricadevano sulla schiena, ed io credo che la riconobbi prima ancora che si voltasse e vedessi gli alti zigomi ed i lunghi occhi castani... era Agia.
— Allora hai sempre saputo che ero qui — disse.
— Potrei rivolgerti la stessa osservazione. Sembra che tu sia arrivata qui prima di me.
— Ho solo intuito che saresti venuto da questa parte. In effetti, sono arrivata poco prima di te, e ho detto alla padrona di casa cosa mi avresti fatto se lei non mi avesse nascosta — mi rispose (e suppongo desiderasse farmi capire che aveva un'alleata, per quanto debole fosse).
— Hai cercato di uccidermi da quando ti ho intravista fra la folla, a Saltus.
— Sarebbe un'accusa? Sì.
— Stai mentendo.
Quella fu una delle poche volte in cui vidi Agia presa alla sprovvista.
— Solo che hai cercato di uccidermi prima ancora di Saltus.
— Con l'avern. Sì, naturalmente.
— Ed anche in seguito. Agia, io so chi è Hethor.
Attesi che rispondesse, ma non disse nulla.
— Il giorno in cui ci siamo incontrati, mi hai detto che c'era un vecchio marinaio che voleva che tu andassi a vivere con lui. Vecchio, brutto e povero, l'hai definito, ed io non sono riuscito a capire come tu, una donna giovane e bella, potessi anche solo considerare la sua offerta se non stavi morendo di fame. Avevi il tuo gemello che ti proteggeva, ed il denaro che ti veniva dal vostro negozietto.
— Sarei dovuta andare da lui e dominarlo — mi rispose, sorprendendomi a sua volta. — Adesso l'ho dominato.
— Pensavo che ti fossi semplicemente promessa a lui, se mi avesse ucciso.
— Gli ho promesso questa e molte altre cose, e così l'ho sottomesso. Lui ti precede, Severian, ed aspetta solo una mia parola.
— Con qualcun'altra delle sue bestie? Grazie per l'avvertimento. È di questo che si tratta, vero? Lui minacciava te ed Agilus con gli animaletti che aveva portato con sé da altri mondi.
— Venne a vendere i suoi vestiti — annuì Agia, — che erano del tipo che s'indossava a bordo delle vecchie navi che salpavano al di là dei confini del mondo molto tempo fa, e non erano un costume, o una contraffazione, e neppure vecchi abiti rimasti al buio per secoli, ma erano invece quasi nuovi. Lui ha detto che le sue navi... tutte quelle navi... si erano perdute nell'oscurità, fra i soli, dove non passano gli anni, perse al punto che neppure il Tempo le poteva ritrovare.
— Lo so — risposi. — Me lo ha detto Jonas.
— Dopo aver saputo che avresti ucciso Agilus, sono andata da lui. Hethor è forte come il ferro sotto certi aspetti, debole sotto altri. Se avessi risparmiato il mio corpo, non avrei potuto ottenere nulla da lui, ma ho fatto invece tutte le strane cose che lui voleva e gli ho fatto credere di amarlo, ed ora lui farà qualsiasi cosa io gli chieda. Ti ha seguito, dopo che hai ucciso Agilus; con il suo argento, ha ingaggiato gli uomini che hai ucciso vicino alla vecchia miniera, e le creature che lui riesce a comandare ti uccideranno per me, se non lo farò qui io stessa.
— Suppongo che intendessi attendere fino a che non mi fossi addormentato per poi scendere ad assassinarmi.
— Prima ti avrei svegliato, una volta che ti avessi puntato il coltello alla gola. Ma il bambino mi ha detto che sapevi che ero qui, ed ho pensato che così sarebbe stato ancora più piacevole. Dimmi una cosa, però... come hai fatto ad intuire chi fosse Hethor?
Un alito di vento trapelò dalle finestre aperte, facendo fumare il fuoco, e sentii il vecchio, che era ripiombato nel silenzio, tossire e sputare sui carboni. Il ragazzino, che era sceso lungo la scala mentre io ed Agia parlavamo, ci stava fissando con i suoi grandi occhi, senza capire.
— Avrei dovuto intuirlo molto prima — replicai. — Il mio amico Jonas era stato un marinaio di quel genere. Ti ricorderai di lui, credo... lo hai intravisto all'imboccatura della miniera e devi aver saputo della sua presenza.
— Sapevamo di lui.
— Forse, provenivano dalla stessa nave, o forse ciascuno dei due era in grado di riconoscere l'altro in base a qualche segno particolare, o forse Hethor temeva che Jonas lo potesse riconoscere. Comunque sia, mi è venuto raramente vicino quando viaggiavo con Jonas, mentre prima era apparso tanto ansioso di stare in mia compagnia. L'ho visto fra la folla, allorché ho giustiziato un uomo e una donna, a Saltus, ma non ha tentato di unirsi a me laggiù. Lungo la strada verso la Casa Assoluta, lo abbiamo visto che ci seguiva, ma non si è avvicinato finché Jonas non se n'è andato, per quanto dovesse avere un disperato desiderio di recuperare le sue notule. Quando è stato gettato nell'anticamera della Casa Assoluta, non ha fatto alcun tentativo di venire a sedersi con noi, anche se Jonas era quasi morto, ma qualcosa che lasciava dietro di sé una scia di fango stava frugando il luogo quando noi lo abbiamo lasciato.
Agia non disse nulla, e, così in silenzio, avrebbe potuto essere la giovane donna che avevo visto, il mattino dopo aver lasciato la nostra torre, mentre staccava le grate che proteggevano le finestre polverose del suo negozio.
— Voi due dovete aver perso la mia pista sulla strada per Thrax — continuai. — Oppure qualche incidente vi ha fatto ritardare. Anche dopo aver scoperto che ero in città, non avete saputo subito che avevo la sovrintendenza del Vincula, altrimenti Hethor non avrebbe mandato la sua creatura di fuoco a vagare per le strade alla mia ricerca. Poi, chissà come, avete trovato Dorcas al Nido dell'Anitra...
— Alloggiavamo là anche noi — spiegò Agia. — Eravamo arrivati solo pochi giorni prima, e ti stavamo ancora cercando quando sei venuto. In seguito, quando ho scoperto che la ragazza nella cameretta era la pazza che avevi trovato al Giardino Botanico, non ho ancora intuito che eri stato tu a portarla là, perché la megera della locanda ci ha detto che l'uomo che l'aveva accompagnata indossava abiti comuni. Ma abbiamo pensato che Dorcas potesse sapere dov'eri, e che sarebbe stata più disposta a parlare con Hethor. Tra parentesi, il suo nome vero non è Hethor: lui dice che è un nome molto più antico che nessuno conosce ormai più.
— E lui ha parlato a Dorcas della creatura di fuoco — dissi, — e Dorcas lo ha riferito a me. Avevo già sentito parlare in precedenza di quella cosa, ma Hethor le ha dato un nome... l'ha chiamata salamandra. Non ci ho fatto caso quando Dorcas me l'ha detto, ma più tardi mi sono ricordato che Jonas aveva saputo dare un nome a quelle cose nere che ci avevano inseguiti fuori dalla Casa Assoluta: le aveva chiamate notule, ed aveva detto che la gente delle navi le chiamava così perché esse tradivano la loro presenza con un'ondata di calore. Se Hethor sapeva dare un nome a quella creatura di fuoco, mi sembrava logico supporre che si trattasse di un nome da marinaio, e che fosse collegato alla natura della creatura stessa.
— Così — fece Agia, con un sottile sorriso, — ora sai tutto, e mi hai dove mi volevi... a patto che tu riesca a maneggiare quella tua grossa spada qui dentro.
— Ti tengo anche senza di essa. Se è per questo, già alla bocca della miniera ti avevo sotto il mio piede.
— Ma io ho ancora il mio coltello.
In quel momento, la madre del ragazzo entrò ed entrambi ci arrestammo. La donna fissò stupita prima Agia e poi me, quindi, come se non ci fosse sorpresa in grado di trapassare il dolore che provava o di alterare quello che doveva fare, chiuse la porta e mise al suo posto la pesante spranga di legno.
— Mi ha sentita mentre ero di sopra, Casdoe — disse Agia, — e mi ha fatto scendere. Mi vuole uccidere.
— E come posso impedirlo io? — replicò stancamente la donna, volgendosi poi verso di me. — L'ho nascosta perché ha detto che le volevi fare del male. Ora ucciderai anche me?
— No, e non ucciderò neanche lei, come Agia sa bene.
Il volto di Agia, distorto dall'ira, mi fece pensare al volto di un'altra adorabile donna, modellato, magari dallo stesso Fechin, con cera colorata, improvvisamente trasformato da una fiammata che l'avesse fatta al contempo squagliare e bruciare.
— Tu hai ucciso Agilus e te ne sei gloriato! Non sono degna di morire quanto lo era lui? Eravamo della stessa carne! — Non le avevo creduto quando mi aveva detto di essere armata con un coltello, ma ora l'arma era lì, una delle ritorte daghe di Thrax, senza che l'avessi notata mentre l'estraeva.
Da qualche tempo, l'aria era pesante per l'imminenza del temporale, ed ora il tuono rimbombò fra i picchi che ci circondavano, e, quando i suoi echi si furono spenti, qualcosa gli rispose: non so descrivere quella voce, perché non era una voce umana e non era neppure il verso di una bestia.
Ogni stanchezza abbandonò Casdoe, e venne sostituita invece da una fretta disperata: pesanti imposte di legno erano appoggiate alla parete accanto a ciascuna piccola finestra, e lei afferrò la più vicina, sollevandola come se non fosse stata più pesante di una padella e la incastrò al suo posto. Fuori, il cane abbaiò freneticamente, poi tacque, cosicché l'unico suono che rimase fu il tamburellare della pioggia.
— Così presto! — gridò Casdoe, — così presto! — E, rivolta al figlio: — Togliti di mezzo, Severian.
Attraverso una delle finestre aperte, giunse il richiamo di una voce infantile che diceva:
— Padre, non puoi aiutarmi?
XVI
L'ALZABO
Tentai di dare una mano a Casdoe, e, nel farlo, voltai le spalle ad Agia ed alla sua daga. Fu un errore che quasi mi costò la vita, perché Agia mi fu addosso non appena ebbi le mani occupate con l'imposta. Secondo il proverbio, donne e marinai tengono il coltello sotto la mano, ma Agia colpì dal basso verso l'alto per aprire la carne e raggiungere il cuore come avrebbe potuto fare un assassino di professione, ed io mi volsi appena in tempo per bloccare la sua lama con l'imposta. La punta del coltello trapassò il legno e spuntò dall'altra parte, brillando.
La forza stessa impressa al colpo tradì Agia: diedi all'imposta uno strattone laterale e la gettai dall'altra parte della stanza, con il coltello confitto dentro. Agia e Casdoe si lanciarono verso l'imposta, ed io afferrai Agia per un braccio e la trassi indietro, mentre Casdoe incastrava l'imposta al suo posto, con il coltello che sporgeva all'esterno, verso la tempesta imminente.
— Sciocca! — esclamò Agia, la voce calma per la sconfitta. — Non ti rendi conto che stai offrendo un'arma a colui che temi, chiunque sia?
— Esso non ha bisogno di coltelli — replicò Casdoe.
La casa era adesso buia, fatta eccezione per la rossiccia luce del fuoco. Mi guardai in giro alla ricerca di una candela o di una lanterna ma non ne vidi; più tardi avrei appreso che le poche che la famiglia possedeva erano state portate nel soppalco. I lampi presero a saettare all'esterno, delineando i contorni delle imposte e disegnando una spezzata linea di luce sotto la porta... ci misi un momento prima di rendermi conto che la linea di luce sotto la porta era spezzata mentre avrebbe dovuto essere continua.
— C'è qualcuno là fuori — dissi, — sullo scalino.
— Ho chiuso la finestra appena in tempo — annuì Casdoe. — Non era mai venuto così presto prima d'ora. Forse la tempesta lo ha svegliato.
— Non pensi che potrebbe essere tuo marito?
Prima che la donna mi potesse rispondere, una voce, più forte di quella del ragazzino, chiamò:
— Fammi entrare, Mamma!
Perfino io, che non sapevo chi stesse parlando, percepii una terribile distorsione esistente in quelle semplici parole: forse era la voce di un bambino, ma non di un bambino umano.
— Mamma — chiamò ancora la voce, — sta cominciando a piovere!
— Faremmo meglio a salire di sopra — suggerì Casdoe. — Se ci tiriamo dietro la scala, non ci potrà raggiungere, anche se dovesse entrare.
Mi ero avvicinato alla porta: senza la luce dei lampi, i piedi della creatura dietro la porta erano invisibili, ma potevo avvertire un respiro lento e rauco al disopra del battito della pioggia, ed una volta sentii un suono raspante, come se la cosa che aspettava nel buio avesse spostato i piedi.
— È opera tua? — chiesi ad Agia. — È una delle bestie di Hethor?
Agia scosse il capo, gli occhi castani che danzavano.
— Queste creature vagano selvagge su queste montagne, come tu dovresti sapere meglio di me.
— Mamma!
Ci fu uno strisciare di piedi... con quell'ansioso appello, la creatura all'esterno si era allontanata dalla porta. Una delle imposte aveva una fessura, e tentai di guardare attraverso essa: non vidi altro che la fitta oscurità esterna, ma potei sentire un passo morbido e pesante che era identico al suono che talvolta trapelava dalle porte sbarrate della Torre dell'Orso, a casa.
— Ha preso Severa tre giorni fa — spiegò Casdoe. Stava cercando di far alzare il vecchio che obbedì lentamente, riluttante ad abbandonare il calore del fuoco. — Non permettevo mai né a lei né a Severian di addentrarsi fra gli alberi, ma esso è venuto qui nella radura un turno di guardia prima del tramonto. Da allora, è tornato ogni notte. Il cane non voleva seguire le sue tracce, ma oggi Becan è andato lo stesso a cercarlo.
Ormai avevo intuito l'identità della bestia, anche se non ne avevo mai vista una di quella specie.
— Allora è un alzabo? La creatura dalle cui ghiandole si ricava l'analettico?
— Sì, è un alzabo — rispose Casdoe, — ma non so nulla di alcun analettico.
— Ma Severian sì — rise Agia. — Ha assaporato la saggezza di quella creatura e porta la sua amata dentro di sé. A quanto mi è dato di capire, di notte si possono sentire i loro ardenti sospiri d'amore.
Cercai di colpirla, ma Agia schivò abilmente e mise il tavolo fra lei e me.
— Non sei felice, Severian, che quando altri animali vennero portati su Urth per sostituire quelli che gli uomini avevano sterminato, fra essi ci fosse anche l'alzabo? Senza l'alzabo, avresti perduto la tua adorata Thecla per sempre. Racconta a Casdoe quanto ti ha reso felice l'alzabo!
— Sono davvero dispiaciuto di apprendere della morte di tua figlia — dissi invece a Casdoe. — Difenderò questa casa dall'animale che c'è fuori, se sarà necessario.
La mia spada era appoggiata al muro, e, per dimostrare la mia buona volontà, allungai la mano verso di essa. Fu una vera fortuna che lo facessi, perché in quel momento da dietro la porta giunse la voce di un uomo:
— Aprimi, cara!
Agia ed io balzammo contemporaneamente avanti per fermare Casdoe, ma nessuno di noi fu abbastanza rapido, e, prima che avessimo potuto raggiungerla, aveva già sollevato la sbarra. La porta si spalancò.
La bestia che attendeva fuori era un quadrupede, ma anche così le sue spalle massicce arrivavano all'altezza della mia testa. La testa era bassa, con le punte degli orecchi al disotto della cresta di pelo che cresceva sulla schiena; alla luce del fuoco, i suoi denti brillavano candidi ed i suoi occhi avevano un bagliore rosso. Ho visto gli occhi di molte di quelle creature che si dice siano giunte qui da oltre i margini del mondo... attratte, come sostengono certi filosofi, dalla morte di quelle bestie che avevano avuto origine qui, così come tribù di enchors, armate di coltelli di pietra e di fuochi, sciamano su un territorio la cui popolazione sia stata annientata dalla malattia o dalla guerra. Comunque, gli occhi di quelle creature erano soltanto gli occhi di una bestia, mentre le orbite rosse dell'alzabo erano qualcosa di più, poiché non avevano l'intelligenza propria degli uomini ma neppure l'innocenza dei bruti. Erano occhi uguali a quelli di un demonio che fosse appena riuscito ad emergere dall'abisso di una stella nera. Poi, mi rammentai degli uomini-scimmia, che erano chiamati demoni ma che avevano occhi umani.
Per un momento, parve che si potesse richiudere la porta, e vidi Casdoe, che era indietreggiata inorridita, cercare di spingere il battente. L'alzabo sembrò avanzare lentamente, perfino pigramente, eppure fu troppo veloce per lei ed il bordo della porta batté contro le costole dell'animale che parvero fatte di roccia.
— Lascia aperto — dissi alla donna. — Avremo bisogno di ogni possibile fonte di luce.
Avevo sguainato Terminus Est, che ora brillava alla luce del fuoco tanto da sembrare essa stessa una fiammella. Una balestra come quella che i sicari di Agia avevano usato, le cui quadrelle venivano accese dall'attrito con l'atmosfera ed esplodevano quando colpivano come pietre gettate in una fornace, sarebbe forse stata un'arma migliore, ma non mi sarebbe sembrata un prolungamento del mio braccio come lo era Terminus Est, e forse avrebbe dato all'alzabo il tempo di balzarmi addosso mentre cercavo di ricaricare, se non lo avessi colpito con la prima quadrella.
La lunga lama della mia spada non eliminava completamente il pericolo: la sua punta squadrata non poteva impalare la bestia, se questa avesse saltato. Avrei dovuto sferrare un fendente mentre era in aria, e, anche se non dubitavo di riuscire a staccare quella testa dal suo spesso collo, sapevo comunque che sbagliare avrebbe significato la mia fine. Inoltre, avevo bisogno di un certo spazio per sferrare il colpo, e la stretta stanza non era certo adeguata. E avevo anche bisogno di luce, mentre il piccolo fuoco si stava invece estinguendo.
Il vecchio, il bambino e Casdoe erano tutti scomparsi, e non ero certo se si fossero arrampicati sulla scaletta, mentre la mia attenzione era fissa sugli occhi della bestia, o se almeno qualcuno di loro fosse riuscito a fuggire dalla porta, alle spalle dell'animale. Rimaneva solo Agia, appiattita in un angolo ed armata con il bastone dalla punta d'acciaio di Casdoe, come un marinaio che, al limite della disperazione, cercasse di allontanare una galeassa servendosi di un rampone. Sapevo che parlarle sarebbe equivalso ad attirare su di lei l'attenzione della bestia, ma speravo che, se l'alzabo avesse alzato la testa in quella direzione, sarei forse riuscito a troncargli la spina dorsale.
— Agia — dissi, — ho bisogno di luce. Al buio mi ucciderà. Una volta, hai detto ai tuoi uomini che mi avresti affrontato, se solo loro mi avessero preso alle spalle. Ora io affronterò questa bestia per te, se solo tu mi porterai una candela.
Agia annuì per dire che aveva capito, e, in quel momento, la bestia si mosse verso di me; non balzò tuttavia, come mi ero aspettato: scivolò pigramente, ma agilmente, sulla destra, venendo più vicina e cercando al contempo di tenersi fuori dalla portata della mia spada. Dopo un momento d'incomprensione, mi accorsi che, assumendo quella nuova posizione vicino al muro, la bestia aveva bloccato qualsiasi ulteriore attacco che io avrei potuto sferrare, e che, se fosse riuscita ad aggirarmi (come aveva quasi fatto) fino a portarsi fra me ed il fuoco, avrei perduto la maggior parte del vantaggio che mi veniva dalla luce della fiamma.
Iniziammo così un attento gioco, nel quale l'alzabo cercava di sfruttare il più possibile le sedie, il tavolo ed i muri, ed io tentavo di trovare il massimo spazio possibile per la mia spada.
Poi balzai avanti. L'alzabo, così mi parve, evitò il mio colpo per non più di un dito di distanza, si allungò contro di me e si trasse indietro appena in tempo per evitare il mio colpo di ritorno. Le sue mascelle, grandi abbastanza per addentare la testa di un uomo come un uomo addenterebbe una mela, si erano chiuse di scatto davanti alla mia faccia, inondandomi con il puzzo del suo respiro marcio.
Rimbombò un altro tuono, tanto vicino che, quando il suo rombo si fu spento, potei udire il tonfo del grande albero di cui esso aveva proclamato la morte; il lampo, illuminando ogni dettaglio con la sua luce abbagliante, mi lasciò intontito ed accecato. Agitai Terminus Est nell'oscurità che seguì, e la sentii mordere un osso e poi rimbalzare. Quando il tuono risuonò di nuovo, roteai ancora la spada, ma questa volta sfasciai solo qualche pezzo di mobilio.
Poi, ci vidi nuovamente. Mentre l'alzabo ed io ci scambiavamo alcune finte e mutavamo posizione, anche Agia si era mossa, e doveva essere corsa verso la scala quando era scoppiato il lampo: era già a metà della scaletta, e vidi Casdoe allungare una mano per aiutarla. L'alzabo era fermo dinnanzi a me, e sembrava integro, se non fosse stato per una pozza di sangue nero che si stava formando ai suoi piedi. Il suo pelo appariva rosso ed ispido alla luce del fuoco, e gli artigli delle zampe, più grossi di quelli di un orso, erano anch'essi di un rosso cupo. Poi, più orrenda della voce che uscisse dalle labbra di un cadavere, sentii ancora la voce che aveva chiesto a Casdoe di aprire la porta.
— Sì — disse, — sono ferito, ma il dolore non è molto, e posso reggermi in piedi e muovermi come prima. Non mi puoi tenere per sempre lontano dalla mia famiglia.
Dalla bocca di quella bestia usciva la voce di un uomo serio ed onesto.
Trassi fuori l'Artiglio e lo deposi sul tavolo, ma esso non emetteva che una debole scintilla azzurra.
— Luce! — gridai ad Agia, ma non mi venne fornito alcun lume, e sentii invece il suono della scaletta del solaio, mentre le donne la tiravano su.
— La via della fuga ti è preclusa, vedi? — disse ancora la bestia, con la voce dell'uomo.
— Lo è anche la tua avanzata. Puoi forse saltare tanto in alto, con una zampa ferita?
Bruscamente, la voce si trasformò in quella sottile e tremolante della bambina.
— Ma posso arrampicarmi. Credi forse che non penserei di spostare il tavolo sotto l'apertura? Io, che posso parlare?
— Allora sai di essere una bestia!
— Noi sappiamo di essere dentro questa bestia, come una volta eravamo dentro gli involucri di carne che essa ha divorato. — Era di nuovo la voce dell'uomo.
— E tu acconsentiresti a che essa divori anche tua moglie e tuo figlio, Becan?
— Lo ordinerei. Sono io che lo ordino. Voglio che Casdoe e Sevenan ci raggiungano qui, come io ho raggiunto Severa quest'oggi. Quando il fuoco si spegnerà, anche tu morirai... ti unirai a noi... e così anche loro.
— Ti sei dimenticato che ti ho ferito quando non potevo vederci? — risi. Tenendo pronta Terminus Est, attraversai la stanza fino a raggiungere la sedia che avevo fracassato, e, preso quello che era stato il suo schienale, lo gettai nel fuoco, generando una nube di scintille. — Quello mi sembrava legno ben stagionato, e lucidato con cura con cera d'api. Dovrebbe bruciare bene.
— Il buio verrà... ugualmente. — La bestia... Becan... sembrava infinitamente paziente. — Il buio verrà, e tu ti unirai a noi.
— No. Quando tutta la sedia sarà bruciata e la luce comincerà a mancare, io avanzerò e ti ucciderò. Adesso sto solo aspettando per farti sanguinare.
Seguì un silenzio reso maggiormente strano dal fatto che nulla, nell'espressione della bestia, lasciava supporre che questa stesse pensando. Sapevo che, come quanto restava dell'attività neurale di Thecla era stato fissato nei nuclei di alcune delle mie cellule frontali grazie ad una secrezione distillata dagli organi di una creatura come quella, così quell'uomo e sua figlia si aggiravano nell'opaco bosco che era la mente di quell'animale ed erano convinti di essere vivi. Ma io non riuscivo neppure ad immaginare che spettro di vita potesse essere il loro, né quali sogni o desideri potessero entrarvi.
— Fra un turno di guardia o due, quindi — disse ancora la voce dell'uomo, — io ucciderò te o tu ucciderai me. O forse ci distruggeremo a vicenda. Se adesso mi volto e me ne vado nella notte e nella pioggia, mi darai la caccia quando Urth si girerà ancora una volta verso il sole? O rimarrai qui per tenermi lontano dalla donna e dal bambino che mi appartengono?
— No — risposi.
— Sull'onore che possiedi? Lo giuri su quella spada, anche se non la puoi puntare verso il sole?
Feci un passo indietro e rovesciai Terminus Est, tenendo la lama in modo che la sua punta fosse diretta verso il mio cuore.
— Giuro su questa spada, l'emblema della mia Arte, che se non tornerai più questa notte, non ti darò la caccia domani, né rimarrò in questa casa.
Rapido come un serpento, l'alzabo si volse, e, forse, per un istante avrei potuto colpire la sua grossa schiena. Poi scomparve, e non rimase altra traccia della sua presenza che la porta spalancata, la sedia in pezzi e la pozza di sangue (più scuro, mi sembra, di quello degli animali del nostro mondo) che stava penetrando nelle tavole del plancito.
Andai alla porta e la sbarrai, quindi riposi l'Artiglio nella piccola sacca che avevo appesa al collo ed infine, come aveva suggerito la bestia, spostai il tavolo in modo da potermi arrampicare su di esso ed issarmi facilmente nel soppalco. Casdoe ed il vecchio mi aspettavano nell'angolo più lontano insieme al bambino, Severian, nei cui occhi vidi ricordi che sarebbero rimasti in lui per vent'anni a venire. Essi erano illuminati dalla vacillante luce di una lampada sospesa ad una delle travi.
— Sono sopravvissuto, come vedete. Avete sentito quello che abbiamo detto di sotto?
Casdoe annuì senza parlare.
— Se tu mi avessi portato il lume che ti avevo chiesto, non avrei fatto ciò che ho fatto. Così come stavano le cose, non ho sentito alcun obbligo nei vostri confronti. Se fossi in voi, lascerei questa casa non appena si fa giorno e scenderei a valle. Ma questo riguarda solo voi.
— Avevamo paura — mormorò Casdoe.
— Anch'io. Dov'è Agia?
Con mia sorpresa, il vecchio m'indicò qualcosa, ed io guardai nella direzione segnalatami, vedendo che il fitto strato di paglia era stato spostato quanto bastava per praticare un'apertura sufficiente a far passare lo snello corpo di Agia.
Quella notte, dormii accanto al fuoco, dopo aver avvertito che avrei ucciso chiunque si fosse azzardato a scendere di sotto. Al mattino, feci il giro della casa e notai che, come mi ero aspettato, il coltello di Agia non era più conficcato nell'imposta.
XVII
LA SPADA DEL LITTORE
— Ce ne andiamo — mi disse Casdoe, — ma preparerò la colazione prima di partire. Non dovrai mangiare con noi, se non lo desideri.
Annuii, ed attesi fuori fino a quando la donna mi offrì una semplice pappa d'avena in una ciotola di legno; allora portai la colazione con me fino alla sorgente e mangiai. Ero protetto dai cespugli, e non venni fuori. Credo che quella fosse una violazione del giuramento fatto all'alzabo, ma comunque tenni d'occhio la casa.
Dopo qualche tempo, Casdoe, suo padre ed il piccolo Severian uscirono.
La donna portava un sacco ed il bastone di suo marito, mentre il vecchio ed il bambino avevano ciascuno un piccolo fardello. Il cane, che doveva essersi nascosto sotto il plancito quando era venuto l'alzabo (non lo posso biasimare, ma Triskele non lo avrebbe fatto) stava saltellando loro intorno. Vidi che Casdoe si guardava in giro alla mia ricerca, e che, quando non le riuscì di trovarmi, si chinò e posò un fagotto sullo scalino.
Li osservai allontanarsi lungo il limitare del loro campicello, che doveva essere stato arato e seminato appena un mese prima e che ora sarebbe stato depredato dagli uccelli. Né Casdoe né suo padre si guardarono alle spalle, ma il ragazzino, Severian, si fermò e si volse prima di superare la prima altura, per vedere ancora una volta la sola casa che avesse mai conosciuto. Le pareti di pietra erano resistenti come sempre, ed il fuoco acceso per la colazione faceva ancora filtrare fumo dal camino. Poi sua madre dovette chiamarlo, perché il bambino si affrettò a seguirla e scomparve alla mia vista.
Abbandonai il riparo dei cespugli e mi avvicinai alla porta. Il fagotto conteneva due coperte di morbido guanaco ed un po' di carne secca avvolta in una pezza pulita. Misi la carne nella giberna e ripiegai le coperte in modo da poterle trasportare sulla spalla.
La pioggia aveva lasciato l'aria fresca e pulita, ed era piacevole sapere che presto mi sarei lasciato alle spalle quella capanna di tronchi con il suo fumo ed i suoi odori. Guardai all'interno e vidi la macchia scura del sangue dell'alzabo e la sedia rotta; Casdoe aveva rimesso il tavolo al suo posto contro la parete, e notai che l'Artiglio non aveva lasciato alcun segno sulla sua superficie. Non era rimasto nulla che valesse la pena di prendere, quindi uscii e richiusi la porta.
Mi misi a seguire Casdoe ed i suoi. Non le avevo perdonato di non avermi fatto luce quando stavo combattendo contro l'alzabo... avrebbe potuto farlo con tanta facilità, calando la sua lampada dal soppalco! Eppure, non potevo biasimarla eccessivamente per essersi schierata dalla parte di Agia, una donna sola fra i volti gelidi e fissi delle cime montane; ed il vecchio ed il bambino, nessuno dei quali poteva essere ritenuto colpevole, erano almeno altrettanto vulnerabili quanto lei.
Il sentiero era soffice, al punto che potevo seguire le loro tracce quasi nel senso letterale del termine, individuando le piccole impronte di Casdoe, quelle ancora più piccole del bambino, che faceva due passi per ognuno della madre, e quelle del vecchio, con le punte rivolte all'interno. Camminai lentamente per non raggiungerli, e, sebbene sapessi che per me il pericolo aumentava ad ogni passo che facevo, osai sperare che le pattuglie dell'arconte, nel fermare ed interrogare i tre, mi avrebbero messo in guardia. Casdoe non mi poteva tradire, dal momento che qualsiasi informazione lei avesse onestamente fornito ai dimarchi, li avrebbe soltanto mandati fuori strada. E, se l'alzabo era nelle vicinanze, speravo di fiutarlo o di sentirlo prima che attaccasse... dopo tutto, non avevo giurato di lasciare la sua preda indifesa, ma solo di non dargli la caccia e di non rimanere nella capanna.
Quel sentiero non doveva essere che una pista tracciata dalla selvaggina ed allargata da Becan, e ben presto svanì. Qui lo scenario era meno cupo di quanto fosse stato al disopra della fascia di alberi; i pendii rivolti a nord erano coperti di piccole felci e di muschio, e le conifere crescevano sulle alture, mentre raramente non si udiva un suono di acqua cadente. Dentro di me, Thecla rammentò di essersi recata in un luogo molto simile a quello per dipingere, accompagnata dal suo insegnante e da due rozze guardie del corpo, ed io ebbi la sensazione che mi sarei presto imbattuto nel cavalletto, nella tela e nella cassetta dei pennelli, abbandonati presso una cascata quando il sole aveva smesso di giocare fra gli spruzzi.
Naturalmente, non trovai nulla, e per parecchi turni di guardia non vi fu ia minima traccia di esseri umani. Mescolate a quelle di Casdoe e dei suoi, c'erano tracce di daini, e, due volte, anche le tracce di quei gattoni dal pelo rossiccio che si nutrono di essi, impronte che dovevano certo essere state lasciate all'alba, quando la pioggia aveva cessato di cadere.
Poi vidi una fila di tracce lasciate da un piede nudo più grande di quello del vecchio: in effetti, ciascuna impronta era grande quanto quella del mio piede calzato di stivale, ed il passo era certo più lungo. Quelle tracce attraversavano ad angolo retto quelle che stavo seguendo, ma una di esse cadeva su una di quelle del ragazzo, il che significava che chi le aveva lasciate era passato fra me e loro.
Mi affrettai ad avanzare.
Avevo immaginato che quelle impronte fossero state lasciate da un autoctono, anche se ricordo di essermi meravigliato per le loro dimensioni e per il passo lungo, dal momento che normalmente quei selvaggi montanari sono piuttosto bassi di statura. Se era davvero un autoctono, era improbabile che facesse del male a Casdoe ed agli altri, anche se era quasi certo che avrebbe preso loro tutto quello che avevano: da quanto avevo sentito dire, gli autoctoni erano bravi cacciatori, ma non bellicosi.
Le tracce di piedi nudi erano di nuovo visibili, ed almeno altri due o tre individui si erano uniti al primo.
Se si fosse trattato di disertori dell'esercito, sarebbe stata tutta un'altra faccenda; circa un quarto dei prigionieri detenuti nel Vincula erano stati uomini di quella specie, e le loro donne, e molti di loro avevano commesso i delitti più atroci.
Dinnanzi a me si levò un'erta salita: potevo vedere i buchi lasciati dal bastone di Casdoe, ed i rami spezzati dove lei ed il vecchio si erano aggrappati nel salire... qualcuno probabilmente spezzato anche dai loro inseguitori. Riflettei che il vecchio doveva essere ormai esausto e che era sorprendente che sua figlia riuscisse ancora ad incitarlo a proseguire. Forse il vecchio, o forse tutti e tre, si erano accorti di essere inseguiti. Mentre mi avvicinavo alla cresta, sentii il cane abbaiare e poi (con lo stesso tempismo per cui parve quasi un'eco dell'urlo della notte precedente) un grido selvaggio ed inarticolato.
Eppure, non si trattava dell'orribile, semiumano grido dell'alzabo. Era un suono che avevo udito spesso in precedenza, qualche volta debole, mentre giacevo nella mia cuccetta vicino a quella di Roche, e più spesso quando portavo i pasti ai clienti della segreta ed agli artigiani di guardia. Era esattamente identico al grido di qualcuno dei clienti del terzo livello, uno di quelli che non erano più in grado di parlare con coerenza e che, per questo, non venivano più portati nella camera degli interrogatori.
Erano zoantropi, simili a quelli che avevo visto scimmiottare alla festa di Abdiesus, e, quando raggiunsi la cima li potei vedere, come anche Casdoe, suo padre e suo figlio. Non li si può definire uomini, ma, a quella distanza lo sembravano, nove uomini nudi che giravano in cerchio intorno a quei tre, saltando ed accucciandosi. Mi precipitai in avanti fino a che non vidi uno di loro colpire il vecchio con la sua mazza e farlo cadere. Allora esitai, e non furono i timori di Thecla a farmi arrestare, ma i miei.
Avevo combattuto coraggiosamente contro gli uomini-scimmia della miniera, forse, ma ero stato costretto a combattere. Avevo affrontato l'alzabo in una posizione di stallo, ma non avevo avuto dove fuggire, se non nell'oscurità esterna dove mi avrebbe certamente ucciso.
Ma ora avevo la possibilità di scegliere, e rimasi indietro.
Vivendo dove viveva, Casdoe doveva aver sentito parlare di quelle creature, anche se probabilmente non le aveva mai viste, e, mentre il bambino le si aggrappava alla gonna, vibrò con il bastone alcuni colpi come se fosse stato una sciabola, mentre la sua voce mi giungeva al disopra delle grida degli zoantropi, acuta, inintelligibile ed apparentemente remota. Provai l'orrore che si prova sempre quando viene attaccata una donna, ma, accanto ad esso, o forse dietro di esso, c'era il pensiero che colei che non aveva voluto combattere al mio fianco doveva ora lottare da sola.
Naturalmente, non poteva durare: quelle creature, o vengono spaventate immediatamente, oppure non si spaventano affatto. Vidi uno di essi strapparle di mano il bastone ed allora estrassi Terminus Est e cominciai a correre giù per il pendio verso la donna, mentre la figura nuda la gettava a terra e si preparava (suppongo) a violentarla.
Poi, qualcosa di enorme balzò fuori dagli alberi sulla mia sinistra: era tanto grosso e si muoveva tanto rapidamente che in un primo momento mi parve un rosso destrieri senza sella e senza cavaliere, e, soltanto quando vidi il lampo dei suoi denti ed udii l'urlo di uno zoantropo, compresi che si trattava dell'alzabo.
Gli altri gli furono immediatamente addosso, e le teste delle loro mazze che si sollevavano ed abbassavano, parvero per un momento grottesche galline che stessero becchettando. Poi, uno zoantropo venne gettato in aria, e, mentre prima era nudo, ora pareva vestito di scarlatto.
Quando finalmente mi unii alla lotta, l'alzabo era a terra, e, per qualche istante, non potei prestare alcuna attenzione ad esso, mentre Terminus Est roteava cantando sulla mia testa: una figura nuda cadde, poi un'altra. Una pietra grossa quanto un pugno mi passò sibilando vicino all'orecchio, tanto vicina che ne udii il suono, e credo che, se mi avesse colpito, sarei morto immediatamente.
Ma quelli non erano gli uomini-scimmia della miniera, tanto numerosi che alla fine mi avrebbero sopraffatto; ne squarciai uno dalla spalla alla vita, separando le costole e sentendole battere sulla lama, e staccai il cranio ad un altro.
Poi, ci fu solo silenzio, ed il pianto del bambino. Sette zoantropi giacevano sull'erba montana, quattro uccisi da Terminus Est, credo, e tre dall'alzabo; il corpo di Casdoe era nelle fauci della bestia, che ne aveva già divorato la testa e la parte superiore delle spalle. Il vecchio che aveva conosciuto Fechin giaceva afflosciato a terra come una bambola rotta, ed il famoso pittore avrebbe certo riprodotto in modo meraviglioso la sua morte, mostrandola da una prospettiva che nessun altro era in grado di trovare ed incarnando nella testa fracassata tutta la dignità e la futilità della vita umana. Il cane giaceva vicino al vecchio, le mascelle insanguinate.
Mi guardai intorno in cerca del bambino, e, con mio orrore, lo vidi raggomitolato contro la schiena dell'alzabo: indubbiamente, la bestia lo aveva chiamato con la voce di suo padre ed il bambino le si era avvicinato. Adesso, le zampe posteriori dell'alzabo tremavano spasmodicamente ed i suoi occhi erano chiusi. Quando presi il bambino per un braccio, la lingua della creatura, più larga e spessa di quella di un toro, emerse come per leccargli la mano, quindi la bestia ebbe un tremito tanto violento che mi fece indietreggiare, e la lingua non rientrò del tutto nella bocca, ma giacque flaccida sull'erba.
— Adesso è tutto finito, piccolo Severian — dissi, allontanando il bambino. — Stai bene?
Lui annuì e cominciò a piangere, ed io lo presi in braccio, e, per parecchio tempo, lo feci passeggiare avanti e indietro per calmarlo.
Per un momento, pensai di usare l'Artiglio, anche se esso mi era venuto meno nella casa di Casdoe come aveva già fatto in altre occasioni. E poi, se avesse funzionato, chi poteva dire quali sarebbero stati i risultati? Non avevo alcun desiderio di dare nuova vita agli zoantropi o all'alzabo, e quale vita poteva essere ridata al corpo senza testa di Casdoe? Quanto al vecchio, egli sedeva già sulla soglia stessa della morte, ed ora era morto rapidamente: mi avrebbe forse ringraziato se lo avessi richiamato in vita solo per obbligarlo a morire di nuovo fra un anno o due? La gemma brillava al sole, ma solo perché i suoi raggi la colpivano e non per la luce del Conciliatore, l'araldo del Nuovo Sole, quindi la riposi, mentre il bambino mi fissava con occhi dilatati.
Terminus Est si era insanguinata fino all'elsa ed oltre, ed io sedetti su un albero caduto per pulirla, mentre riflettevo sul da farsi, procedendo quindi ad affilare e ad oliare la lama. Non m'importava nulla degli zoantropi o dell'alzabo, ma mi sembrava una cosa vile lasciare il corpo di Casdoe o quello del vecchio ad essere divorati dalle fiere, senza contare che anche la prudenza mi ammoniva a non farlo.
Che sarebbe accaduto se un altro alzabo fosse capitato in quel posto e, dopo essersi saziato con le carni di Casdoe, si fosse messo a seguire il bambino? Considerai se era il caso di trasportare i due corpi fino alla capanna, ma era una distanza considerevole ed io non potevo trasportare i due cadaveri contemporaneamente, e sembrava quindi certo che quello che avessi lasciato indietro sarebbe stato dilaniato prima del mio ritorno. Attratti dalla vista di così tanto sangue, infatti, i teratorniti divoratori di carogne stavano già volando in cerchio nell'aria, ciascuno sostenuto da ali grandi quanto la vela maestra di una caravella.
Per qualche tempo, sondai il terreno circostante alla ricerca di un punto morbido dove poter scavare con il bastone di Casdoe, ma alla fine trasportai i corpi fino ad un tratto di terreno roccioso vicino ad un corso d'acqua e là costruii un tumulo su di essi, che li avrebbe coperti, almeno speravo, per quasi un anno, fino allo scioglimento delle nevi, e cioè fin quasi alla data della festa di Santa Katharine, disgelo che avrebbe trascinato via le ossa della figlia e del padre.
Il piccolo Severian all'inizio mi aveva soltanto osservato, poi mi aveva portato a sua volta alcune piccole pietre prima che il tumulo fosse completato; infine, mentre ci lavavamo nel torrente dalla polvere e dal sudore, mi aveva chiesto:
— Sei mio zio, tu?
— Sono tuo padre... per ora, almeno — gli dissi. — Quando a qualcuno muore il padre, se ne deve trovare uno nuovo, se è una persona giovane come te. E sono io.
Il bambino annuì, perso nelle sue riflessioni, ed io, improvvisamente, mi rammentai come, appena due notti prima, avessi sognato di un mondo in cui gli abitanti si sapevano legati da vincoli di sangue perché discendenti tutti da un'unica coppia di coloni. Io, che non conoscevo i nomi di mia madre e mio padre, avrei potuto essere parente di quel bambino che portava il mio stesso nome, o, per questo, parente di chiunque incontravo. Il mondo di cui avevo sognato era stato, per me, il letto stesso su cui giacevo. Vorrei poter essere in grado di descrivere quanto eravamo seri, fermi là vicino al ridente ruscello, e quanto apparisse solenne e pulito il bambino, con il volto lavato e le gocce d'acqua che brillavano fra le ciglia dei suoi grandi occhi.
XVIII
SEVERIAN E SEVERIAN
Bevvi quanto più potei e raccomandai al bambino di fare altrettanto, perché c'erano molti luoghi aridi sulle montagne, ed avremmo potuto non trovare altro da bere fino al mattino successivo. Il bambino mi chiese se adesso saremmo tornati a casa, e, sebbene avessi progettato di tornare indietro sui miei passi, fino all'abitazione di Casdoe, risposi di no, perché sapevo che sarebbe stato troppo doloroso per lui rivedere quella casa, il giardinetto ed il piccolo campo e doverli lasciare per la seconda volta. Alla sua età, il ragazzino poteva anche essere convinto che, chissà come, suo padre, sua madre, sua sorella e suo nonno fossero ancora dentro quella casa.
Comunque, non potevamo scendere ulteriormente, perché eravamo già molto al disotto dell'altitudine a cui il cammino si faceva pericoloso per me. Il braccio dell'arconte poteva arrivare a cento e più leghe di distanza da Thrax, ed era probabile che Agia si sarebbe affrettata a mettere i dimarchi sulle mie tracce.
A nord-est c'era il picco più alto che avessi mai visto: non soltanto la sua cima, ma anche le spalle erano coperte di neve che gli scendeva fin quasi alla vita. Non avrei saputo dire, e forse nessuno era in grado di farlo, a chi appartenesse il volto orgoglioso che guardava verso occidente dominando molte altre vette minori, ma certamente doveva essere appartenuto a qualcuno che aveva regnato all'inizio del periodo più grandioso dell'umanità, e che aveva comandato energie in grado di modellare il granito, come il coltello di uno scultore modella il legno. Guardando la sua immagine, mi sembrava che perfino gli induriti dimarchi, che conoscevano tanto bene quelle selvagge montagne, dovessero provare davanti a lui un reverenziale timore. E così, mi avviai in quella direzione, o meglio, verso l'alto passo che collegava le pieghe della tunica alla montagna su cui Becan aveva stabilito la sua dimora. Per il momento, il cammino non era molto erto, e noi spendemmo la maggior parte delle energie nel camminare piuttosto che nell'arrampicarci.
Il bambino Severian mi teneva spesso per mano, anche quando non aveva bisogno del mio sostegno; io non sono molto bravo a giudicare l'età dei bambini, ma mi sembrava che si trovasse in quello stadio di crescita in cui, se fosse stato uno dei nostri apprendisti, sarebbe entrato per la prima volta nell'aula scolastica del Maestro Palaemon... il che voleva dire che era grande abbastanza da camminare bene e da parlare quanto bastava per capire e per farsi capire.
Per più di un turno di guardia, il bambino non disse altro, a parte ciò che ho già riferito; poi, mentre stavamo discendendo un aperto pendio erboso orlato di pini, un luogo molto simile a quello in cui era morta sua madre, mi chiese:
— Severian, chi erano quegli uomini?
— Quelli non erano uomini — risposi, sapendo a chi si riferiva, — anche se una volta lo erano stati ed ancora somigliavano ad esseri umani. Erano zoantropi, una parola che indica quelle bestie che hanno forma umana. Capisci quello che sto dicendo?
— Perché non portavano vestiti? — chiese il ragazzino, dopo aver annuito solennemente.
— Perché, come ti ho detto, non erano più esseri umani. Un cane nasce cane, ed un uccello nasce uccello, ma divenire un essere umano è una conquista... dovresti rifletterci. Devi averci già pensato durante gli ultimi tre o quattro anni almeno, piccolo Severian, anche se non te ne sei reso conto.
— Un cane cerca soltanto il cibo — osservò il ragazzo.
— Esatto. Ma questo solleva la questione se una persona debba essere obbligata a simili riflessioni, e c'è gente che molto tempo fa ha deciso che non era un obbligo. Noi possiamo talvolta costringere un cane a comportarsi come un uomo... a camminare sulle zampe di dietro, a portare un collare e così via, ma non potremmo e non dovremmo obbligare un uomo ad agire come un uomo. Non hai mai desiderato dormire, quando non eri stanco e neppure assonnato? — chiesi, ed il bambino annuì. — Questo perché volevi deporre il fardello derivante dall'essere un ragazzo, almeno per un po'. Qualche volta, io bevo troppo vino, e questo perché vorrei smettere per un po' di essere un uomo. Qualche volta, c'è gente che per questo motivo si toglie la vita. Lo sapevi?
— Oppure fanno cose che li fanno soffrire — aggiunse il ragazzino, con l'aria di ripetere discorsi sentiti da altri, il che mi indusse a pensare che Becan doveva essere stato proprio quel tipo di uomo, altrimenti non avrebbe portato la sua famiglia a vivere in un luogo tanto solitario ed isolato.
— Sì — convenni, — quella è la stessa cosa. E qualche volta, certi uomini e perfino certe donne, arrivano ad odiare il fardello costituito dal pensiero, senza però desiderare di morire. Vedono gli animali e vogliono diventare come loro, obbedire solo agli istinti e non dover pensare. Lo sai cos'è che ti fa pensare, piccolo Severian?
— La mia testa — rispose prontamente il ragazzine prendendosela fra le mani.
— Anche gli animali hanno la testa... perfino ammali molto stupidi come i gamberi, i buoi o le pulci. Quello che ti fa pensare è solo una piccola parte della tua testa, all'interno, proprio sopra gli occhi. — Gli toccai la fronte. — Ora, supponiamo che, per una qualche ragione, tu voglia farti tagliare una mano: ci sono uomini abilissimi nel farlo, da cui potresti andare. Supponiamo, per esempio, che la tua mano abbia subito un danno da cui non guarirà mai: essi sarebbero in grado di tagliartela in modo tale da non procurare alcun danno al resto della tua persona.
Il bambino annuì.
— Molto bene. Quegli stessi uomini possono anche togliere quella piccola parte della tua testa che ti fa pensare. Non possono più rimetterla, bada bene, e, anche se potessero farlo, non si potrebbe chiedere loro di rimetterla una volta che fosse stata tolta. Ma, qualche volta, ci sono persone che pagano questi uomini perché rimuovano quella parte della testa. Essi vogliono smettere per sempre di pensare, e spesso dicono di voler volgere le spalle a tutto quello che l'umanità ha fatto. Allora, non è più giusto trattarli come esseri umani... essi sono divenuti animali, anche se animali di forma umana. Tu mi hai chiesto perché non portano vestiti: essi non comprendono più l'uso dei vestiti, per cui non li usano neppure se hanno freddo, anche se può darsi che vi si sdraino sopra o vi si arrotolino dentro.
— Tu sei un po' in quel modo? — chiese il bambino, indicando il mio petto nudo.
Il pensiero che Severian suggeriva non mi era mai passato prima per la mente, e, per un momento, rimasi interdetto.
— Questa è la legge della mia corporazione. Non mi sono fatto togliere una parte della testa, se questo è quello che mi stai chiedendo — risposi, — ed ero solito portare la camicia... Ma, sì, suppongo di essere anch'io un pochino in quel modo, perché non ho mai pensato di vestirmi neppure quando avevo freddo.
— È per questo che stai fuggendo? — chiese il bambino, mentre la sua espressione mi diceva che avevo confermato i suoi sospetti.
— No, non è per questo che sto fuggendo. Se non altro, suppongo che di me si potrebbe dire l'opposto, e cioè che quella parte della mia testa è diventata troppo grande. Ma hai ragione in merito agli zoantropi, è per questo che si trovano sulle montagne. Quando un uomo diventa come un annuale, diventa un animale pericoloso, e la presenza di animali del genere non può essere tollerata nei luoghi abitati, dove ci sono fattorie e molta gente. Così, essi vengono scacciati sulle montagne, o condotti qui dai loro vecchi amici o da qualcuno che essi hanno pagato per farlo, prima di rifiutare il dono umano del pensiero. Essi possono ancora pensare un poco, naturalmente, come tutti gli esseri umani, quanto basta per trovare il cibo in queste terre selvagge, anche se molti muoiono ogni inverno. Quanto basta per lanciare bastoni, così come le scimmie tirano noccioline, o per usare le clave o per cercarsi una compagna, perché, come ho detto, fra loro vi sono anche alcune femmine. I loro figli e le loro figlie raramente vivono a lungo, tuttavia, ed io suppongo che sia la cosa migliore per loro, dal momento che essi nascono come siamo nati tu ed io... con il fardello della capacità di pensare.
Quel fardello si era fatto pesante per me, quando terminai di parlare, tanto pesante che mi resi conto realmente, per la prima volta, di come esso potesse costituire per alcuni una maledizione altrettanto terribile come lo era per me la mia grande capacità di ricordare.
Non sono mai stato molto sensibile alla bellezza, ma lo splendore di quel cielo e di quelle montagne era tale che sembrava colorare tutte le mie riflessioni, tanto da darmi l'impressione di essere quasi arrivato a comprendere l'incomprensibile. Quando mi era apparso dopo la prima rappresentazione della commedia del Dr. Talos... qualcosa che allora non ero riuscito a capire e che non riuscivo tuttora a comprendere per quanto fossi sempre più sicuro che era avvenuto... il Maestro Malrubius mi aveva parlato della circolarità del governo, anche se il governo era una cosa che non mi riguardava. Ora mi colpì il fatto che la volontà stessa era governata, se non dalla ragione, dalle cose che si trovavano al disotto o al disopra di essa, anche se era molto difficile dire da quale parte della ragione si trovassero queste cose. L'istinto, certamente, doveva trovarsi al disotto di essa, ma non poteva darsi che anch'esso si trovasse invece al disopra? Quando l'alzabo aveva attaccato gli zoantropi, l'istinto l'aveva indotto a difendere dagli altri la sua preda, mentre l'istinto di Becan, credo, era stato quello di difendere sua moglie e suo figlio. Entrambi avevano svolto lo stesso atto, e lo avevano effettuato stando nello stesso corpo: forse che l'istinto più basso e quello più nobile si erano uniti alle spalle della ragione? Oppure esiste un solo istinto, che si trova alle spalle della ragione, cosicché essa ne scorge un aspetto su ciascun lato?
Ma, l'istinto era davvero quell'«attaccamento alla persona del monarca» che il Maestro Malrubius aveva sottinteso essere al contempo la più elevata e la più bassa forma di governo? Perché è chiaro che l'istinto, di per sé, non può nascere dal nulla... i falchi che volavano sulle nostre teste costruivano indubbiamente i loro nidi obbedendo all'istinto, eppure doveva esserci stato un tempo in cui i nidi non esistevano, e quindi il primo falco che ne aveva costruito uno non poteva averlo fatto in base ad un istinto ereditato dai genitori, che non lo possedevano. E neppure poteva essersi tale istinto sviluppato lentamente, con un migliaio di generazioni di falchi che raccoglievano una sola pagliuzza prima che uno di loro ne raccogliesse due, perché né una sola pagliuzza e neppure due potevano essere d'aiuto ad un falco che si volesse costruire un nido. Forse ciò che veniva prima dell'istinto era il più elevato ed insieme il più infimo principio di governo della volontà, o forse no. Gli uccelli roteanti tracciavano i loro geroglifici nel cielo, ma io non ero in grado di decifrarli.
Ci avvicinammo alla sella che univa la montagna all'altra più alta che ho già descritto, e ci parve di muoverci sulla faccia dell'intera Urth, tracciando una linea dal polo all'equatore: la superficie su cui stavamo strisciando come insetti avrebbe potuto effettivamente essere il globo stesso rivoltato. Lontano, dietro di noi, e più avanti, brillavano gli ampi ed incombenti campi di neve, sotto i quali giacevano pietrosi pendii simili alle rive del gelato mare meridionale. Ancora più sotto, c'erano alti prati erbosi costellati di fiori selvatici; rammentai allora il prato fiorito che avevo superato il giorno precedente, e, sotto la coltre azzurra che rivestiva la montagna che avevo dinnanzi, potei distinguere la striscia che essi disegnavano sul petto del colosso, al disotto della quale i pini sembravano quasi neri.
La sella fino alla quale eravamo discesi era del tutto diversa, una distesa di foresta montana dove le piante dalle foglie lucide levavano, con aria malata, il capo alto trecento cubiti verso il sole morente. In mezzo ad esse, i loro fratelli defunti rimanevano eretti, sostenuti da quelli vivi e dall'intrico di liane che li avvolgeva. Vicino al piccolo ruscello accanto al quale ci fermammo per trascorrere la notte, la vegetazione aveva già perso parte della sua delicatezza montana per acquistare il carattere lussureggiante proprio delle terre basse. Ora che eravamo abbastanza vicini alla sella perché potesse vederla chiaramente, e la sua attenzione non era più monopolizzata dalla necessità di camminare ed arrampicarsi, il ragazzino me l'indicò e mi chiese se ci saremmo arrampicati lassù.
— Domani — risposi. — Presto sarà buio, e mi piacerebbe attraversare questa giungla di giorno.
— È pericolosa? — chiese dilatando gli occhi alla parola giungla.
— Non lo so. Da quanto ho sentito a Thrax, gli insetti non dovrebbero essere cattivi come nelle pianure, e non è probabile che qui veniamo disturbati da vampiri succhiasangue... un mio amico è stato morso da uno di quei vampiri, una volta, e non è stata una cosa piacevole. Ma qui vivono le grosse scimmie, ed anche i felini e così via.
— Ed i lupi.
— Ed anche i lupi, naturalmente, solo che si trovano i lupi anche più in alto: in alto, come dove sorgeva la tua casa e più su ancora.
Mi pentii immediatamente di aver menzionato la sua casa, perché quell'accenno di gioia di vivere che stava ritornando sul volto del bambino scomparve con il mio accenno ad essa, e lui mi parve per un momento perso nei suoi pensieri. Poi disse:
— Quando quegli uomini...
— Zoantropi.
— Quando gli zoantropi sono venuti ed hanno fatto male alla mamma, tu sei corso ad aiutarci più presto che hai potuto?
— Sì — risposi. — Sono venuto più presto che ho potuto. — Era vero, almeno in un certo senso, ma era ugualmente doloroso adirsi.
— Bene — proseguì il bambino, mentre io stendevo la sua coperta, lo facevo sdraiare su di essa e poi lo coprivo. — Le stelle si sono fatte più luminose, vero? Diventano sempre più luminose, quando il sole se ne va.
— In realtà, non se ne va — risposi, sdraiandomi accanto a lui e sollevando lo sguardo. — Urth si limita a girare altrove il suo volto, cosicché noi crediamo che lui se ne vada. Se tu non mi guardi, io non vado via per il solo fatto che così non mi vedi.
— Se il sole è ancora là, perché le stelle brillano maggiormente?
Dal suo tono di voce compresi che era compiaciuto della sua furbizia nel discutere, ed anch'io ne ero compiaciuto, e di colpo mi resi conto del perché al Maestro Palaemon piacesse ragionare con me quando ero bambino.
— La fiamma di una candela è quasi invisibile alla violenta luce del sole, e le stelle, che in realtà sono anch'esse soli, sembrano svanire nello stesso modo. Disegni fatti nei giorni antichi, quando il nostro sole era più luminoso, indicano che allora le stelle non erano affatto visibili fino al tramonto. Le antiche leggende... ho nella mia giberna un libro marrone che ne racconta molte... sono piene di esseri magici che appaiono e scompaiono nello stesso modo. Indubbiamente, questi racconti sono basati sull'aspetto che avevano allora le stelle.
— Là c'è l'idra — indicò il bambino.
— Credo che tu abbia ragione. Ne conosci altre?
Il bambino mi mostrò la croce ed il grande toro, ed io gli indicai il mio amphisbaena e parecchie altre costellazioni.
— Là c'è il lupo, vicino all'unicorno, e dovrebbe esserci un piccolo lupo, ma non riesco a trovarlo.
Lo scoprimmo insieme, vicino all'orizzonte.
— Sono come noi, vero? — mi chiese il bambino. — Il grande lupo ed il piccolo lupo, e noi siamo il grande Severian ed il piccolo Severian.
Convenni che era così, e lui fissò le stelle per lungo tempo, masticando il pezzo di carne secca che gli avevo dato, poi disse:
— Dov'è il libro con quelle storie?
Glielo feci vedere.
— Anche noi avevamo un libro, e qualche volta mamma leggeva qualcosa a Severa ed a me.
— Era tua sorella, vero?
— Eravamo gemelli — annuì il bambino. — Grande Severian, hai mai avuto una sorella?
— Non lo so. Tutta la mia famiglia è morta, morta quando ero bambino. Che tipo di storia ti piacerebbe?
Mi chiese di vedere il libro, ed io glielo diedi; dopo che ebbe sfogliato qualche pagina, me lo restituì.
— Non è come il nostro.
— Non pensavo che lo fosse.
— Vedi se riesci a trovare la storia di un ragazzo che abbia un grosso amico ed un gemello. Dovrebbero esserci anche i lupi. — Feci del mio meglio, leggendo in fretta per vincere la luce che svaniva.
XIX
LA STORIA DEL RAGAZZO CHIAMATO ROSPO
Parte I - Inizio d'Estate e suo figlio
Sulla cima di una montagna, al di là delle spiagge di Urth, viveva una volta un'adorabile donna chiamata Inizio d'Estate. Ella era la regina di quella terra, ma il suo re era un uomo forte che non conosceva il perdono, e, poiché lei era gelosa di lui, lui era geloso di lei a sua volta, ed uccideva qualsiasi uomo che sospettasse essere il suo amante.
Un giorno, Inizio d'Estate stava passeggiando nel suo giardino quando vide uno splendido bocciolo di una specie a lei sconosciuta. Era più rosso di qualsiasi rosa, ed aveva un profumo più dolce, ma il suo forte stelo era privo di spine e liscio come l'avorio. La regina colse il fiore e lo portò in un angolo nascosto, dove si sdraiò a contemplarlo, ed esso crebbe fino a non sembrarle più un bocciolo, ma l'amante che aveva desiderato, possente eppure tenero come un bacio. Certi succhi della pianta entrarono in lei, ed ella concepì. Tuttavia, disse al re che il bambino era suo, e, siccome era ben sorvegliata, il re le credette.
Nacque un maschio, e, per desiderio di sua madre, fu chiamato Vento di Primavera. Alla sua nascita, vennero radunati tutti gli studiosi delle stelle perché facessero il suo oroscopo, non solo quelli che vivevano sulla cima della montagna, ma anche molti dei più grandi maghi di Urth. A lungo essi faticarono sulle loro carte, e nove volte si riunirono in solenne conclave: alla fine annunciarono che Vento di Primavera sarebbe stato imbattibile in battaglia, e che nessuno dei suoi figli sarebbe perito prima di divenire adulto. Questa profezia piacque molto al re.
Man mano che Vento di Primavera cresceva, sua madre vide con segreto piacere che il ragazzo amava soprattutto i campi, i fiori ed i frutti. Ogni cosa verde fioriva sotto la sua mano, ed era il coltello del contadino che egli desiderava impugnare, e non la spada. Ma quando fu divenuto un giovane uomo, venne la guerra, e Vento di Primavera prese lo scudo e la lancia. Poiché era di temperamento quieto ed obbediente al re (che egli credeva fosse suo padre, e che si credeva suo padre), molti supposero che la profezia si sarebbe rivelata falsa, ma non fu così. Nel fervore della battaglia, il giovane combatteva con freddezza, con ben ragionato coraggio e con sobria cautela; nessun generale aveva una mente più fertile della sua nel creare stratagemmi ed astuzie, e nessun ufficiale era più attento a compiere ogni dovere. I soldati che egli guidava contro i nemici del re erano addestrati fino a sembrare uomini di bronzo animati dal fuoco, e la loro lealtà verso di lui era tale che lo avrebbero seguito anche nel Regno delle Tenebre, il reame più lontano dal sole. Ed allora gli uomini dissero che era il vento della primavera ad abbattere le torri, ed era il vento della primavera a far rovesciare le navi, anche se non era stata questa l'intenzione d'Inizio d'Estate.
Accadde poi che le sorti della guerra portarono spesso Vento di Primavera su Urth, e là egli venne a conoscere due fratelli che erano re. Di questi, il più anziano aveva parecchi figli, mentre il più giovane aveva una figlia sola, chiamata Uccello di Bosco. Quando quella ragazza divenne una donna, suo padre fu ucciso, e suo zio, affinché ella non potesse mai generare figli in grado un giorno di reclamare il regno del nonno, fece inserire il suo nome in un ordine di sacerdotesse vergini. Questo dispiacque a Vento di Primavera, perché la principessa era bella e suo padre era stato suo amico. Un giorno, accadde che Vento di Primavera scese da solo su Urth, e, vista Uccello di Bosco che dormiva accanto ad un ruscello, la destò con i suoi baci.
Dalla loro unione nacquero due gemelli, ma, sebbene le sacerdotesse dell'ordine avessero aiutato Uccello di Bosco a celare allo zio la crescita del suo ventre, non poterono nascondere anche i bambini. Prima ancora che Uccello di Bosco li vedesse, le sacerdotesse deposero i neonati in un canestro imbottito di coperte e li portarono sulla riva dello stesso corso d'acqua dove Vento d'Estate aveva incontrato Uccello di Bosco, e, gettato il canestro nel fiume, se ne andarono.
Parte II - Come Rospo trovò una nuova madre
Quel canestro si spinse lontano, su acque dolci e salate. Altri bambini sarebbero morti, ma i figli di Vento di Primavera non potevano morire, perché non erano ancora adulti. I mostri corazzati che vivono nell'acqua spruzzarono il loro canestro, e le scimmie gettarono contro di esso ramoscelli e nocciole, ma il cesto continuò per la sua strada, e si arenò infine su una riva, dove due povere sorelle stavano lavando i loro vestiti. Quelle brave donne videro il canestro e gridarono; poi, infilate le gonne nella cintura, entrarono nell'acqua e lo portarono a riva.
Poiché erano stati trovati nell'acqua, i bambini furono chiamati Pesce e Rospo, e, quando le due sorelle li fecero vedere ai loro mariti e si capì che erano bambini notevolmente forti e belli, ciascuna sorella ne prese uno per sé. Ora, la sorella che scelse Pesce era la moglie di un pastore, mentre quella che scelse Rospo era la sposa di un taglialegna.
Questa sorella si prese ottima cura di Rospo, e lo nutrì al suo seno, perché aveva da poco perso un figlio. Lo portava appeso sulla schiena in uno scialle quando suo marito andava in terre selvagge a tagliare la legna, e per questo i creatori di leggende dicono che era la più forte di tutte le donne, poiché portava un impero sulla schiena.
Passò un anno, ed alla fine di esso Rospo aveva imparato a stare in piedi ed a muovere qualche passo. Una notte, il taglialegna e sua moglie erano seduti presso il loro piccolo fuoco, in una radura, nelle terre selvagge, e, mentre la donna preparava la cena, Rospo si avvicinò al fuoco per scaldarsi alla fiamma, poiché era nudo. Allora il taglialegna, che era un uomo rude ma gentile, gli chiese:
— Ti piace?
E, sebbene non avesse mai parlato prima di allora, Rospo annuì e rispose:
— Il fiore rosso.
Si dice che, a quelle parole, Inizio d'Estate si agitasse nel suo letto, sulla cima della montagna al di là delle spiagge di Urth.
Il taglialegna e sua moglie rimasero stupefatti, ma non ebbero il tempo di discutere fra loro dell'accaduto, né di cercare d'indurre Rospo a parlare ancora, e neppure di pensare a quello che avrebbero raccontato al pastore ed a sua moglie quando li avessero incontrati di nuovo, perché in quel momento nella radura risuonò un rumore terribile... coloro che lo hanno udito dicono che sia il suono più terrificante dell'intero mondo di Urth. Sono così pochi quelli che lo hanno udito e sono sopravvissuti, che esso non ha nome, ma è qualcosa come un ronzio di api o come il verso che potrebbe emettere un gatto che fosse più grosso di una mucca, o come i suoni che i ventriloqui imparano per prima cosa ad emettere, una specie di ronzio della gola che sembra provenire da ogni parte contemporaneamente. Quello era il canto che uno smilodonte canta quando è vicino alla sua preda, quel canto che spaventa anche i mastodonti al punto d'indurii a caricare nella direzione sbagliata, cosicché vengono colpiti alle spalle.
Certamente, il Pancreatore conosce tutti i misteri. Egli ha pronunciato quella lunga parola che è il nostro universo, e ben poche cose accadono che non facciano parte di quella parola. Per sua volontà, quindi, non lontano dal fuoco sorgeva una collinetta, nella quale era stata costruita una tomba nei giorni antichi; e, anche se il povero taglialegna e sua moglie non lo sapevano, due lupi vi avevano eretto la loro casa, una costruzione dal tetto basso e dalle pareti spesse, con gallerie illuminate da lampade verdi che scendevano fra i memoriali rovinati e le urne rotte, una casa, cioè, adatta ai gusti dei lupi. Là, il lupo sedeva, intento a succhiare il femore di un coryphodone, e la lupa, sua moglie, si teneva i piccoli stretti al seno.
Essi udirono giungere da vicino il canto dello smilodonte, e lo maledirono nel Grigio Linguaggio, come sanno maledire i lupi, poiché nessuna bestia obbediente alle leggi caccia vicino alla casa di un altro animale che viva di caccia, ed i lupi sono in buoni termini con la luna.
Quando ebbe terminato la maledizione, la lupa disse:
— Che preda può esservi che il Macellaio, quello stupido assassino di cavalli di fiume, sia riuscito a trovare, quando tu, marito mio, che sei in grado di fiutare una lucertola che corra su una montagna al di là di Urth, ti sei accontentato di leccare un osso spolpato?
— Io non divoro carogne — replicò brevemente il lupo, — né estraggo vermi dalla terra o cerco rospi nelle polle.
— Né il Macellaio canta per simili prede — replicò sua moglie.
Allora il lupo sollevò il capo e fiutò l'aria.
— Egli caccia il figlio di Meschia e la figlia di Meschiane, e tu sai che nessun bene può venire da carne simile.
A queste parole sua moglie annuì, perché sapeva che il figlio di Meschia era l'unica creatura vivente che uccidesse tutti e chiunque quando veniva ucciso uno della sua specie. Questo perché il Pancreatore gli aveva dato Urth e lui aveva rifiutato il dono.
La canzone finì, ed il Macellaio ruggì tanto da far cadere le foglie dagli alberi, quindi strillò, perché le maledizioni dei lupi sono potenti, fintanto che splende la luna.
— Come ha fatto a farsi male? — chiese la lupa, leccando il volto di una delle sue figlie.
Il lupo fiutò ancora l'aria.
— Carne bruciata! È balzato proprio dentro il loro fuoco.
E lui e sua moglie risero, silenziosamente, come ridono i lupi, mostrando tutti i denti, mentre i loro orecchi erano tesi come tende nel deserto, poiché stavano ascoltando il Macellaio che annaspava fra i cespugli in cerca della sua preda.
Ora, la porta della casa dei lupi era aperta, poiché, quando entrambi i due lupi adulti erano in casa, non importava loro chi potesse entrarvi, e quelli che ne uscivano erano meno di quelli che erano entrati. La soglia era stata illuminata dalla luna piena, poiché la luce della luna è sempre la benvenuta nelle case dei lupi, ma ora si oscurò: un bambino era fermo là, forse un po' timoroso dell'oscurità, ma attratto dal forte odore del latte. Il lupo ringhiò, ma la lupa chiamò, con la sua voce più materna:
— Vieni, piccolo figlio di Meschia, qui puoi bere e stare al caldo e nel pulito. Qui ci sono i compagni di gioco dagli occhi vivaci e dal piede lesto, i migliori del mondo.
Udendo questo, il bimbo entrò, e la lupa, deposti a terra i suoi piccoli ormai sazi, lo nutrì al suo seno.
— Di che utilità può essere una simile creatura? — chiese il lupo.
— E puoi chiedermi questo quando sei costretto a rosicchiare l'osso di una preda dell'ultima luna? — rise la lupa. — Non ti ricordi quando la guerra infuriava qui intorno, e gli eserciti del Principe Vento di Primavera percorrevano queste terre? Allora, nessun figlio di Meschia ci dava la caccia, perché si combattevano gli uni con gli altri. E dopo le loro battaglie noi uscivamo fuori, tu ed io, e tutto il Senato dei Lupi, e perfino il Macellaio, e Colui che Ride, ed il Nero Uccisore, e ci muovevamo fra morti e morenti, scegliendo quello che più ci andava.
— Questo è vero — ammise il lupo. — Il Principe Vento di Primavera ha fatto grandi cose per noi. Ma questo cucciolo di Meschia non è lui.
La lupa si limitò a sorridere e disse:
— Fiuto il fumo della battaglia nel pelo della sua testa e sulla sua pelle. — (Era il fumo del Fiore Rosso) — Tu ed io saremo polvere, quando la prima colonna di guerrieri uscirà dalle mura della sua città, ma da quella prima colonna ne deriveranno mille altre, che nutriranno i nostri figli, ed i loro figli ed i figli dei loro figli.
A quelle parole, il lupo annuì, perché sapeva che la lupa era più saggia di lui, e che, se lui era in grado di fiutare cose che si trovavano al di là delle spiagge di Urth, la lupa era in grado di vedere i giorni che si celavano al di là delle piogge dell'anno successivo.